Alain Ducasse, l’uomo che sussurra ai cristalli e parla alla terra.
Un viaggio vibrante nell’universo di Alain Ducasse: fra l’oasi parigina di Le Jardin, 21 stelle Michelin e la filosofia della “naturalité”, l’articolo racconta come lo chef trasformi lusso, sostenibilità e provocazione in pura poesia gastronomica.
PASSIONE CUCINA
Martin
6/5/20253 min leggere


C’è un momento, entrando nel palazzo Baccarat, in cui il brusio di Parigi si zittisce di colpo. Un corridoio di luce, il fruscio delle fronde e poi Le Jardin: una terrazza segreta appena inaugurata, odorosa di verbena e sorbetti di rabarbaro, dove i bicchieri in cristallo scintillano come lucciole di città. Il lusso smette di farsi notare e inizia a bisbigliare: tavoli bassi, tovaglie leggere, un’insalata di fiori spontanei che sembra raccolta a pochi passi dagli Champs-Élysées. È da questa oasi — l’ultima creatura di Alain Ducasse presentata a maggio 2025 — che parte il nostro viaggio nel suo universo, un universo fatto di eleganza che non alza mai la voce.
Chi si aspetta il solito ritratto dello «chef da 21 stelle» resterà spiazzato. Oggi il maestro parla soprattutto di naturalité, la filosofia che lo guida da un decennio: meno proteine animali, più cereali, verdure dimenticate, zero sprechi. «Mangiare è un atto di cittadinanza», ripeteva a febbraio, al Forum di Monte-Carlo, spiegando che la cucina può cambiare abitudini prima ancora che legislazioni. Lo dice con la calma di chi ha la coscienza pulita e il calendario pieno di impegni didattici: scuole, masterclass, consulenze, menu per le lounge di Air France. Tutto tenuto insieme da un unico filo verde: fare il massimo con il minimo impatto.
I numeri, però, restano da capogiro. Nella sua carriera Ducasse ha stretto fra le mani 21 stelle Michelin, un record che lo colloca in quell’empireo dove i cuochi diventano istituzioni culturali. Ma la contabilità delle stelle non racconta l’anima di questo signore nato nelle Landes, sopravvissuto a un incidente aereo e oggi più curioso di un debuttante. «Non mi interessa collezionare trofei — confida spesso — mi interessa collezionare idee». E le idee, come vedremo, sono ancora fresche come mousse di crescione.
Ad aprile, a Meudon, il cuoco-filosofo ha messo il grembiule per un pranzo che a qualcuno deve essere sembrato un reality culinario estremo: paprika di mealworms, kimchi di carote, caviale d’artichoke. Più di cento chef francesi hanno assaggiato, storcendo il naso e poi spalancando gli occhi, queste provocazioni proteiche pensate per un futuro climatico incerto. «Meno carne, ma migliore; più gusto, ma con leggerezza», ha chiosato Ducasse, ribadendo che fallire è meno grave che rifiutare il cambiamento. E davanti alle larve croccanti è stato chiaro: meglio arrendersi all’idea oggi che subirla domani.
Questo pragmatismo visionario passa anche dalla formazione. A École Ducasse, il campus di 5.000 metri quadri alle porte di Parigi, i corsisti 2025 studiano fermentazioni, cotture a bassa energia e perfino la gestione circolare degli scarti: pane rigenerato in birra, bucce trasformate in polveri aromatiche, alghe in versione snack. Il messaggio è netto: la creatività non è più sola estetica del piatto, è etica del pianeta. Chi ne esce porta con sé un diploma e un piccolo tarlo interiore — quello, benedetto, che spinge a chiedersi come posso fare meglio, sprecare meno?
Eppure sarebbe un errore dipingere Ducasse come asceta radicale. Aliena il superfluo, sì, ma non rinnega il piacere. Nella tartare di tonno al peperoncino dolce servita a Le Jardin c’è una carezza di baies de goji che fa strizzare l’occhio al lusso da jet-set; nella marmitta di asparagi primaverili del Louis XV riecheggia il profumo di quando, ragazzo, rubava le prime punte nell’orto del nonno. È in questo equilibrio — tra memoria rurale e avanguardia urbana — che la sua cucina resta inimitabile: un ponte fra l’innocenza dei sapori originari e la lucidità di chi sa leggere il futuro.
Il futuro, appunto. Mentre molti tristemente replicano il passato con photoshop gastronomici, Ducasse pare già proiettato nell’anno 2030: menù per missioni spaziali (già testati dall’ESA), ristoranti galleggianti a batteria, social eating che educa alla biodiversità. Gli chiedi se non teme di correre troppo e lui ti risponde con un sorriso sornione: «La corsa è nei dettagli. La fretta è per chi copia». L’estro, per lui, è capacità di raccogliere domande prima ancora di sparare risposte.
Da critico mi porto a casa tre lezioni, buone per chiunque ami il cibo più delle mode: Sottrarre è un’arte. Quando si toglie la carne rossa da un palazzo dell’alta ristorazione, il vero lusso diventa l’inventiva dello chef e la dignità dell’ingrediente vegetale. Educare è cucinare. Ogni ricetta è un micro-manifesto politico: sceglie fornitori, impatta su territori, racconta storie di semi e di mani. Osare con gentilezza. In un’epoca di provocazioni urlate, Ducasse preferisce l’eleganza di un sorbetto alla borragine che insinua curiosità anziché scandalo.
Alla fine del pranzo, mentre la luce si attenua fra la veranda e la piccola orangerie, il maître sistema sul tavolo una piccola cloche in vetro. Dentro c’è una sola foglia di shiso, laccata al foglio d’argento, che profuma come un bosco dopo la pioggia. «Un augurio», dice. E capisco che la cifra di Ducasse sta tutta lì: in un gesto minimo che dilata l’immaginazione, nel coraggio di sembrare semplice per risultare, in realtà, profondamente necessario.
Se il fine dining ha ancora un’anima, è perché figure come Alain Ducasse continuano a sferzarla con la leggerezza di un colpo di vento — quello che, passando tra le posate, fa tintinnare il cristallo e ricorda che la bellezza, quando è intelligente, non pesa mai.
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