Basta bacchette ideologiche: chi ha paura di un Allegro con brio?
Quando la partitura diventa pretesto e l’arte finisce ostaggio di un braccio di ferro politico.
ARTE
by Martin J. Osburton
7/23/20252 min leggere


Cronaca di uno strappo orchestrale. La scena è regale ma la partitura – ahimè – suona stonata: la Reggia di Caserta annulla il concerto del direttore russo Valery Gergiev, previsto il 27 luglio. Una riga secca di comunicato, una bufera lunga quattordici giorni. Da un lato il governatore De Luca che invoca il “dialogo che favorisce la pace”, dall’altro il ministro Giuli che replica: l’arte è libera, la propaganda un’altra cosa. Stiamo difendendo la cultura o stiamo brandendo un cacciavite politico sullo spartito?
Arte, propaganda e la crepa nel muro. L’arte non tace. L’arte non cancella. L’arte non si arrende. Eppure – chiasmo in agguato – condannare il regime, ammutolire il musicista, idolatrare la libertà, zittire il solista. Le accuse a Gergiev – vicinanza a Putin, silenzi sull’invasione ucraina – sono note. La moglie di Navalny ammonisce: “Non fate dirigere un complice”. Ma, davvero, un fortissimo in do minore può trasformarsi in un missile ideologico? O stiamo confondendo il palco con il talk‑show, il pentagramma con il comizio?
Centro, periferia e paywall emotivo. Caserta è periferia che sogna il centro: un festival (“Un’Estate da Re”), un cortile vanvitelliano, un pubblico affamato di partiture che altrove costano un paywall di velluto rosso. Cancellare l’evento significa chiudere la porta non solo a Gergiev, ma alla possibilità per la provincia di dialogare con il mondo. Nel frattempo, l’ambasciata russa tuona: “Il danno non lo fate a Mosca, lo fate all’Italia, alla sua ospitalità”. Memoria storica ci ricorda che, persino nei tempi più bui, le frontiere culturali hanno bucato i blocchi diplomatici. Ciò che oggi chiamiamo classico è nato dal contrabbando di idee.
Lentezza come resistenza: ascoltare prima di cancellare. Viviamo nell’epoca del like‑doppio‑tap, del giudizio espresso in 280 caratteri. Ma un Adagio di Mahler diretto da Gergiev dura mezz’ora: lentezza che cura, resistenza al click‑day dell’indignazione. Che succede se la cultura viene sempre messa in secondo piano? Si allarga la crepa tra chi ascolta piano e chi discute lungo; si restringe lo spazio per scrivere corto, ma con parole che pesano. La fretta di togliere dal cartellone risolve la polemica? Sospetto di no: la trasforma in totem da esibire – o da abbattere – a seconda del vento.
Oltre la cancel‑culture: una convivenza possibile. Una critica pluralista (e un po’ ironica) suggerisce: ospitiamo il concerto, abbiniamoci una tavola rotonda, mettiamo sul palco anche musicisti ucraini; facciamo parlare le note, poi i cittadini. Si chiama “contrappunto”, non “propaganda”. Ché l’arte – memoria docet – prospera nel confronto, appassisce nell’embargo culturale. Non c’è pace più fragile di quella costruita a colpi di dis-inviti. Leggere piano, discutere lungo, scrivere corto: se davvero vogliamo difendere i valori del “mondo libero”, cominciamo col permettere alle orchestre di accordare gli strumenti prima di spaccare gli archi.
La musica non assolve né condanna; apre fessure. E da ogni fessura passa luce, persino quando il mondo fuori sembra murato a propaganda.
Riflessioni
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Creatività
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