Cannoni o contratti: perché l’Europa sta perdendo la voce
Tra armi e welfare, la politica sceglie i decibel sbagliati.
POLITICA ESTERA
by Martin J. Osburton
9/6/20253 min leggere


Non è un’ode alle autocrazie, che restano problematiche. È una nota a margine: chi parla di pane, bollette, trasporti vince l’attenzione. Noi, spesso, recitiamo il rosario delle armi. E poi ci stupiamo del calo di consenso.
Nelle case europee non si discute di “architetture di deterrenza”, ma di caldaie da riparare, affitti che galoppano, treni perennemente in ritardo. La politica, per farsi ascoltare, deve “colpire” lì. E invece? Dopo il 2022 abbiamo imboccato una corsia unica: più spesa militare, nuovi obiettivi, nuova retorica. Capisco l’ansia strategica; la sicurezza conta. Però—ecco la correzione—se parli solo di cannoni, il cittadino sente solo rumore.
I numeri, prima di tutto. Nel 2024 i 27 hanno speso 343 miliardi di euro in difesa, +19% sul 2023, portando la quota verso 1,9% del PIL: massimo storico, certifica l’Agenzia europea per la difesa. E nel 2025 i leader NATO hanno fissato un traguardo ancora più ambizioso: 5% del PIL entro il 2035, con 3,5% sulla “difesa core” (truppe e armamenti) e 1,5% su investimenti connessi (cyber, infrastrutture dual‑use). Si può discutere la tempistica, ma l’asticella è stata alzata, e di molto.
C’è anche una questione di ordini di grandezza. Nel 2023 la difesa in Europa valeva circa 1,3% del PIL e il 2,7% della spesa pubblica; la protezione sociale assorbiva quasi il 40% delle uscite. Spostare l’asticella verso il 5% significa, a regime, centinaia di miliardi in più ogni anno. Stime indipendenti parlano di un ritorno a livelli di spesa da fine anni ’60 e di una riallocazione nell’ordine di centinaia di miliardi annui, con effetti inevitabili su debito o su altre funzioni (sanità, scuola, trasporti). Non è catastrofismo; è contabilità pubblica, una semplice equazione di bilancio che i cittadini capiscono benissimo.
Sia chiaro: in Europa la spesa sociale resta gigantesca. Nessuno “taglia il welfare con l’accetta”. Il problema è l’opportunità—il classico guns vs butter. Con bilanci compressi e regole fiscali più rigide, ogni euro in più alla difesa costringerà prima o poi a spostare priorità o tasse. La letteratura comparata rileva che il trade‑off sta tornando al centro dell’arena politica.
E l’opinione pubblica? Non vive di sigle, vive di conto corrente. Nell’ultima ondata di sondaggi europei, la vita cara e la prospettiva di standard di vita in calo restano in cima; allo stesso tempo, cresce la richiesta di un’Europa protettiva e capace di sicurezza comune. Paradosso? No: la gente vuole protezione dentro e fuori casa. Se la politica mette in scaletta solo missili e droni, il consenso scricchiola—non per ideologia, per economia domestica.
Nel frattempo, i blocchi “non‑occidentali” —chiamiamoli così— si presentano con un lessico diverso. I BRICS insistono su crescita, sviluppo e riforma della governance globale (non dico che ci riescano, dico che lo raccontano così). La SCO (Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai) approva dichiarazioni su energia, pagamenti, infrastrutture (Astana 2024) e quest’anno si discute perfino di obbligazioni comuni e di un’infrastruttura di pagamenti alternativa. Intanto Cina–Russia: scambi a 240 miliardi di dollari nel 2023, nuovo massimo; nel 2024 ancora crescita, poi segnali di rallentamento nel 2025—ma il messaggio resta: accordi energetici, rotte, pipeline. Non sono modelli di libertà, affatto; ma quando parlano al pubblico parlano “di cose”: tariffe, navi, gasdotti. E quella concretezza, piaccia o no, pesa nelle opinioni.
Che fare, allora? Primo: spiegare i costi. Se porti la difesa al 3,5% o al 5% del PIL, devi dire quanto, dove, per chi, e con che ritorno industriale. Secondo: compensare. Vincolare ogni euro militare a un euro in trasporti locali, scuola tecnica, sanità di prossimità. Terzo: lavoro. Una difesa europea senza filiere e competenze è solo slogan; programmi seri di formazione e riconversione valgono quanto una batteria di Patriot. Quarto: diplomazia economica. Con il Sud globale non si entra a colpi di sermoni, ma di corridori energetici, credito paziente e regole eque di commercio.
La verità —spiace dirlo— è semplice: chi promette ponti batte chi promette bunkers. Non perché il mondo sia buono, ma perché le persone hanno bambini da portare a scuola e treni da prendere. Se l’Europa vuole contare nel multipolarismo, deve tornare a parlare la lingua della vita comune. Altrimenti, continueremo a vincere i comunicati stampa e a perdere il Paese reale.
Riflessioni
Uno spazio per pensare oltre la superficie.
Creatività
martin@osburton.com
+?? ??? ??????? - vuoi sapere il mio numero di telefono ? Clicca qui.
© 2025. Tutti i diritti sono riservati.