"Casu Marzu": l’eresia cremosa che sfida l’Europa

Il formaggio “vivente” della Barbagia ci costringe a ripensare il confine fra cultura, legge e disgusto.

PASSIONE CUCINA

by Martin J. Osburton

7/25/20253 min leggere

Il primo morso è mentale, non fisico. Ogni volta che un viaggiatore approda in Sardegna, fra pietre nuragiche e venti di maestrale, si trova davanti un bivio interiore: accettare o rifiutare ciò che vibra ancora di vita sulla tavola. Il Casu marzu, segnalato dal Guinness World Records come “formaggio più pericoloso del pianeta”, non è solo un pecorino colonizzato da larve di Piophila casei; è una provocazione ontologica. L’oggetto alimentare perde la sua quieta staticità per diventare processo, metamorfosi in atto. E quel sussulto visibile, che alla vista educata appare orrore, rivela invece un pensiero in movimento: fino a che punto siamo disposti a masticare il divenire?

L’elogio della decomposizione controllata. La tradizione pastorale barbaricina non conosce la dicotomia sterile fra purezza e corruzione. Lì, dove la transumanza scolpisce il paesaggio umano, le larve non sono parassiti, bensì co‑fermentatori: digeriscono la caseina, rompono legami proteici, conferiscono a ogni boccone quella cremosità decisiva che incendia palato e narici. Nel gesto antico di sollevare lentamente la crosta spaccata — col timore che qualche larva possa fare il suo celebre balzo di venticinque centimetri — si celebra la consapevolezza che la vita si nutre di trasformazioni radicali. Qualcuno sussurra repulsione; l’iniziato riconosce il profumo di sottobosco, di lana, di corde catramate che pendono dalle barche dei tonnarotti. È erotica della materia in decadenza, ma senza la quale nessuna rinascita sarebbe possibile.

La legge, la paura, l’igiene come ideologia. Nel 1962 lo Stato italiano scelse la via dell’interdizione: vendere Casu marzu divenne reato, figlio di un sospetto sanitario che, a conti fatti, conta appena 63 casi di pseudomiasi in tutta la letteratura scientifica, nessuno legato al formaggio sardo. Eppure, la larva è rimasta il totem del pericolo. Perché? L’igiene, quando diventa ideologia, trasforma la complessità biologica in un codice binario: lecito/illecito, commestibile/immondo. Così, mentre gli acidi gastrici umani disinnescano agevolmente quei minuscoli organismi, la norma continua a parlare un linguaggio di emergenza. Il risultato è la clandestinità: ciò che non si può regolare si occulta, moltiplicando rischi e rendite del mercato nero — centinaia di tonnellate l’anno per un fatturato milionario che scorre sotto il ponte levatoio della legalità.

Grilli certificati, larve ribelli: la contraddizione europea. È lecito immettere sul mercato farine di insetto allevate in ambienti sterili di Danimarca o Paesi Bassi, ma non è ammesso il formaggio sardo “parassitato”. Ciò che conta non è la sicurezza alimentare in sé, quanto la sua dimostrabilità protocollare. Gli insetti industriali s’inseriscono in una filiera tracciabile, digitalizzata, assicurata: rassicurano i consumatori perché riproducono lo spirito di un’Unione che preferisce il dato all’esperienza. Il Casu marzu, invece, porta con sé la memoria di gesti artigianali non standardizzabili. Dal 2005 l’Università di Sassari sperimenta un allevamento controllato di Piophila casei, ma il paradosso resta: normalizzare l’anomalia rischia di snaturarla, come imbalsamare un’onda. E senza quell’istante di selvatichezza estetica, la crema pungente perderebbe il suo motivo d’esistere.

Economia segreta e identità collettiva. Sotto la patina dell’illiceità, il Casu marzu manifesta una resistenza culturale: il consumatore clandestino rivendica il diritto all’imperfezione, allo specifico locale non negoziabile. Il formaggio “vivente” è moneta di scambio in feste di paese, rito iniziatico tra suonatori di launeddas, prova pubblica di coraggio gastronomico. Il prezzo — doppio rispetto a un pecorino tradizionale — finanzia non solo l’impresa clandestina ma l’idea che la Sardegna non sia appendice turistica, bensì laboratorio di sovranità del gusto. Se il continente predica omologazione, l’isola replica con un sussurro spigoloso: “Noi siamo l’eccezione che rende la regola sopportabile”.

Disgusto, desiderio, dialettica del limite. Alla fine, la domanda non riguarda la tossicologia, ma il nostro rapporto con la finitudine: accettare di nutrirsi di un cibo che pulsa ancora significa riconoscere la continuità fra noi e ciò che consideriamo “altro”. Il Casu marzu non è “il formaggio più pericoloso del mondo”; è lo specchio più spietato delle nostre paure, l’eco di una modernità che sterilizza tutto, persino l’emozione. Chi lo assaggia — e resiste all’urto visivo — racconta di una profondità aromatica irraggiungibile da prodotti addomesticati. Forse, allora, l’unico vero rischio è scoprire che il confine tra lecito e illecito non passa per la larva ma per la nostra capacità di pensiero critico. E se il vero veleno fosse l’incapacità di lasciarsi contaminare? Io, che l’ho mangiato, vi assicuro che è una prelibatezza assoluta.