Cornici di silenzio: il paradosso di un museo che censura la libertà

Quando l’istituzione che custodisce la memoria civica teme la sua stessa immagine

ARTE

by Martin J. Osburton

7/29/20252 min leggere

Il museo come agorà sorvegliata.

La National Portrait Gallery si preparava ad accogliere American Sublime, prima personale di una pittrice afro‑americana contemporanea nei suoi saloni. Ma Amy Sherald ha chiuso i bauli: l’opera “Trans Forming Liberty”, rilettura della Statua più famosa d’America con le fattezze di una persona trans, è stata giudicata «problematicamente divisiva». La richiesta (informale, ma inequivocabile) di rimuoverla ha reso la mostra impossibile. «Non posso collaborare con un clima di censura che politicizza le vite più vulnerabili», ha scritto l’artista, restituendo alla città una sala improvvisamente muta.

Simboli che bruciano.

La forza di Sherald è sempre stata la dialettica fra icona e quotidiano: corpi dalle cromie morbide, posture solenni, identità periferiche lanciate al centro del discorso pubblico. Con la Statua della Libertà trans lo spostamento è radicale: il simbolo dell’accoglienza diventa corpo che reclama accoglienza. Se la critica reagisce leggendo la tela come “ritratto politico”, è perché l’arte di Sherald compie un’operazione heideggeriana: disvela l’origine di un segno ritenuto neutro. Ed è proprio questa scomoda verità che l’istituzione sembra non reggere, confermando che la neutralità museale è spesso un racconto di comodo.

Il fantasma dell’esecutivo.

Il nervosismo del museo non nasce nel vuoto. A marzo, un ordine presidenziale ha affidato al vicepresidente la supervisione di ogni “ideologia impropria” nei musei federali, minacciando i finanziamenti di chi promuove “narrazioni divisive”. Poche settimane dopo, la direttrice Kim Sajet ha abbandonato l’incarico sotto pressioni politiche. Non occorrono editti espliciti: basta il timore di perdere fondi o di finire nel mirino di un tweet presidenziale perché la curatela diventi autocensura.

Un ecosistema di paure preventive.

Il caso Sherald è la cresta visibile di un’onda più ampia. A marzo l’Art Museum of the Americas ha cancellato due esposizioni dedicate ad artisti neri e LGBTQ+ in seguito a un giro di vite del governo sui programmi DEI: «Obbedienza preventiva», l’ha definita il curatore Andil Gosine, «così si impara a vivere nella paura». Dal New Jersey all’Arizona, mostre su transfemminismi, colonialismo o identità queer sono state ridimensionate con l’argomento, apparentemente pragmatico, del “non è il momento giusto”. Ma se non è il momento ora—quando i diritti sono sotto attacco—quando mai lo sarà?

L’arte come contro‑narrazione.

Gli aristotelici ci ricordano che la poiésis trasforma il possibile in atto: un quadro non è solo pigmento, ma mondo potenziale. Per questo fa paura: perché instaura relazioni nuove fra soggetto e polis, fra margine e centro. Chi oggi riduce la tela di Sherald a “polemica” dimentica che ogni Statua della Libertà è già, in origine, un gesto politico. Eppure, proprio nei musei—nati per celebrare il pluralismo della democrazia americana—la libertà di figurare ciò che siamo rischia di essere la prima a incrinarsi. La cornice resta, ma il quadro manca: ecco il vero scandalo contemporaneo. In definitiva, la domanda non è se l’arte debba essere libera; la domanda è quanta libertà siamo disposti a tollerare quando un volto trans ci restituisce, specularmente, i nostri stessi limiti. La voce più pericolosa non è quella che urla dalla tela, ma quella che sussurra nel vuoto lasciato da un’opera rimossa.