Dietro la maschera: quando il palato diventa politico

Valerio M. Visintin e la battaglia per una critica gastronomica che non si inginocchia

PASSIONE CUCINA

by Martin J. Osbuton

7/25/20252 min leggere

Dopo avere letto un interessante articolo di Italiaatavola.net firmato da Mauro Taino dedicato all’intervista in cui Valerio Massimo Visintin, critico “mascherato” del Corriere della Sera, si confessa a volto coperto, mi sono chiesto se l’anonimato non sia oggi l’ultima forma di trasparenza. Visintin usa la maschera come scudo contro favori, debiti di riconoscenza, pressioni emotive: si offre così come cartina di tornasole a chi ancora crede che la verità, anche a tavola, abbia un costo – spesso salato – ma non negoziabile. La sua è una postura filosofica prima che giornalistica: sottrarsi allo sguardo, per restituire uno sguardo più limpido sul piatto e su chi lo firma.

La crisi che racconta non è soltanto economica, è innanzitutto epistemica. L’editoria gastronomica langue perché recensire significa pagare un conto reale, mentre molti editori pagano conti immaginari: influencer dal sorriso sbiancato e YouTuber che scambiano la critica per intrattenimento hanno occupato la scena, svilendo il logos culinario a jingle di marketing. Visintin parla di “fuffa” dilagante e di una professione appesa al filo sottile di chi, potendo scegliere, preferisce l’iperbole sponsorizzata alla riflessione rigorosa. È il paradosso di un pubblico che chiede giudizi affidabili, ma si nutre – letteralmente – di like.

Dietro la retorica delle nuove aperture, Visintin intravede un retrobottega dove la cucina serve più a lavare denaro che a rompere uova. Almeno un ristorante su cinque nelle grandi città, denuncia, è sfiorato da capitali mafiosi; ai clan si affiancano fondi finanziari “opachi” che serializzano locali come fossero asset, mentre gli affitti stratosferici soffocano gli indipendenti. Così, paradossalmente, oggi si mangia meglio in provincia che nei capoluoghi: lontano dai riflettori, ma anche dalle “lavatrici di quattrini”. La gastronomia diventa quindi specchio di una polis diseguale, dove l’apparenza scintilla e la sostanza evapora.

Se le guide dovrebbero orientare il viaggiatore del gusto, per Visintin sono bussola smagnetizzata: costose da produrre, spesso ridotte a “fiction promozionale”. Il caso Michelin è emblematico – criteri opachi, schede fotocopia, persino stelle postume – e alimenta quel “chefismo” che trasforma la cucina in gara podistica: 350‑400 luminari in competizione perenne, menù degustazione interminabili, mini‑porzioni in contrasto sistematico dolce/acido, morbido/croccante. Un’estetica del frammento che lascia il commensale sazio d’Instagram ma orfano di memoria gustativa. Abolire le stelle? Ridimensionarle, almeno, suggerisce il critico: non si può giudicare con lo stesso metro un panettiere ascetico e un demiurgo della schiuma di ricci.

Che fare allora? Visintin ci ricorda che la critica è «colonna della democrazia» e che spetta a noi, lettori‐mangiatori, difenderla pagando per un’informazione libera dagli spoiler del portafoglio. In gioco non è solo il piacere del palato, ma la possibilità di riconoscere l’autenticità in un mondo che la monetizza al ribasso. Forse la frase che dovrebbe restare incisa, più delle stelle su una soglia, è questa: se non siamo disposti a pagare per la verità nel piatto, finiremo per digerire la menzogna a ogni boccone.