Diplomazia a targhe alterne: la giustizia vale solo se fa notizia?
Perché per Cecilia Sala sì e per Alberto Trentini no? Il cortocircuito della diplomazia italiana.
POLITICA ESTERA
by Martin J. Osburton
9/2/20253 min leggere


Due italiani ingiustamente detenuti all’estero. Una liberata in pochi giorni, l’altro dimenticato per mesi—ormai oltre nove. Il discrimine? La visibilità. Non dovrebbe contare; eppure, pesa come piombo.
Cominciamo dai fatti, sì, i fatti. Cecilia Sala viene fermata a Teheran il 19 dicembre 2024 durante un viaggio di lavoro. Dopo circa tre settimane, l’8 gennaio 2025, atterra a Roma. Ad accoglierla ci sono la presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri: segnale plastico della priorità politica data al dossier. Nelle ricostruzioni emergono il carcere di Evin, l’isolamento, interrogatori serrati; mentre Palazzo Chigi parla di “lavoro intenso” su canali diplomatici e di intelligence. Più testate hanno collegato la liberazione anche al caso dell’iraniano Mohammad Abedini (arrestato in Italia su richiesta USA), pur senza presentarlo come scambio formale; le autorità iraniane hanno comunque negato un nesso diretto. (Nota di metodo: alcune cronache indicano rientro l’8 o 9 gennaio per differenza di fusi e orari di pubblicazione).
Poi c’è Alberto Trentini, cooperante di Humanity & Inclusion. Viene arrestato al checkpoint di Guasdualito il 15 novembre 2024; da quel momento, raccontano ONG e familiari, isolamento e informazioni con il contagocce. La Commissione interamericana dei diritti umani (OAS) emette a gennaio misure cautelari chiedendo al Venezuela di garantire l’incolumità e i contatti. L’Italia convoca il rappresentante di Caracas a Roma e presenta proteste formali; pochi giorni dopo il caso approda anche a Palazzo Chigi. E tuttavia la sabbia scorre lenta: a fine luglio 2025 arriva la prima telefonata alla famiglia—otto mesi dopo l’arresto. Nel frattempo, la sua ONG avvia una mobilitazione pubblica: “detenuto senza capi d’accusa”, “rilasciate Alberto e Rafael”. La fotografia è questa: un cittadino italiano, profilo basso, ancora in cella da oltre nove mesi.
È vero: i contesti non si equivalgono. Con l’Iran l’Italia lavora dentro reti multilaterali dove UE e USA hanno leve reali; con il Venezuela la relazione è fragile e spesso ostile. A metà gennaio 2025 Caracas limita il numero dei diplomatici di alcuni Paesi europei (tra cui l’Italia); seguono risposte e contromisure in varie capitali. Sempre in quei giorni Roma convoca il rappresentante venezuelano e protesta anche per l’espulsione di tre diplomatici italiani. In un simile clima, il caso Trentini diventa un percorso a ostacoli. Ma un principio resta fisso: che sia Teheran o Caracas, lo Stato ha il dovere di garantire contatti consolari regolari, assistenza legale e un pressing costante—non intermittente.
Qui entra la parte scomoda (anche per noi). L’attenzione pubblica è un acceleratore: spinge i governi, apre canali, costa consensi se tarda. Il caso Sala ha avuto una cassa di risonanza enorme—podcast, prime serate, editoriali—e il pressing ha funzionato. Il caso Trentini è quasi l’opposto: un cooperante che aiuta gli altri, profilo basso, zero luci addosso. E allora la domanda: vogliamo davvero che i diritti dipendano dai click? Se sì, la diplomazia scivola nel marketing istituzionale; se no, serve una par condicio diplomatica che non premi il clamore ma l’urgenza umana. Lo dico brutale: se diventiamo schiavi del rumore, non sentiremo più la voce di chi non fa rumore.
Cosa fare, subito (non domani). Primo: trasparenza periodica. Un bollettino quindicinale del MAECI su tutti i cittadini detenuti all’estero (Paese detentore, stato del procedimento, contatti avuti), con eventuali omissis concordati con le famiglie. Secondo: standard minimi obbligatori—tempi per il primo colloquio consolare, visita medica, nomina del legale—con escalation automatiche se il Paese detentore non collabora. Terzo: una task force permanente che unisca diplomatici, giuristi, mediatori umanitari e specialisti di risk management, capace di lavorare anche con organismi regionali (OAS, UE) e ONG. Quarto: usare la pressione pubblica come leva civile, ma redistribuirla—campagne istituzionali quando l’attenzione cala, così da non lasciare indietro i casi “non mediatici”. Niente di eroico; solo normalità da Paese serio.
Siamo un Paese che ama i racconti. E allora rileggiamoci: in un capitolo c’è Sala, liberata in tre settimane; nell’altro c’è Trentini, che attende da mesi. La morale è semplice: se la libertà di un cittadino vale quanto i suoi follower, la bilancia è già rotta. Raddrizziamola—adesso. Portiamo Trentini a casa e fissiamo una regola non negoziabile: stesso Stato, stesso peso, stesso diritto. Altrimenti non sarà solo lui in prigione. Lo saremo anche noi, prigionieri delle nostre comode gerarchie invisibili.
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