Fine di un ‘impero di carta’

Dove finisce l’egemonia narrativa statunitense quando crollano le riviste, si assottigliano gli anticipi — e il lettore migra dal «deep reading» al feed infinito?

LETTERATURA

by Martin J. Osburton

7/11/20253 min leggere

«Se vuoi capire lo Zeitgeist, guarda dove sparisce il silenzio»: così provoca un giovane editor di New York mentre arrotola il numero d’addio di Tin House, la rivista che per vent’anni ha fatto da vivaio a scrittori oggi nei manuali scolastici. Quel rotolo, stretto in un pugno, somiglia all’asta di una bandiera ammainata. Il gesto vale una statistica: dal 2019 a oggi sono scomparse decine di testate letterarie (fra le più note Tin House e Glimmer Train). Il “sistema‑serra” che nutriva la narrativa americana si sta prosciugando e, con esso, l’idea stessa di una centralità culturale a stelle e strisce.

Shock d’offerta. Finanziare la prima curva di un autore è diventato un lusso. Gli anticipi di medio catalogo si contraggono; un sondaggio del Bookseller registra «i ritardi peggiori di sempre» nei pagamenti, con molti scrittori costretti a vivere di prestiti. Contemporaneamente, università dal budget in rosso riducono o chiudono i corsi di scrittura creativa, considerati “non strategici” in tempi di iscrizioni calanti. Se l’offerta è un albero, gli hanno segato radici e rami: niente nutrimento (riviste), poca acqua (borse di studio), tronco svuotato (editor e scout licenziati in silenzio).

Shock di domanda. Dall’altra parte del banco la torta‑lettori non sparisce; si ricompone. Il segmento page‑turner da supermarket vola grazie agli algoritmi di raccomandazione, mentre la lit‑fic da premio continua a esistere in tirature‑cattedrale per congregazioni d’élite. In mezzo, un deserto. I numeri Nielsen mostrano che, nel primo semestre del 2024, le vendite middle‑grade sono scese del 5 %, pari a 1,8 milioni di copie in meno. È la scomparsa del “ceto medio” narrativo: senza il romanzo che mantiene vivo il dialogo fra intrattenimento e ambizione estetica, ogni libro deve essere blockbuster o reliquia.

Dal deep reading al feed infinito. Maryanne Wolf parla di «ritorno all’oralità veloce»: lo scroll sostituisce la pagina, l’emozione‑frazione rimpiazza l’argomentazione astratta. Non è soltanto questione di ore passate su TikTok, ma di neuro‑plasticità: più inseguiamo il flusso, meno tolleriamo la frizione cognitiva della prosa complessa. Sul piano civile l’effetto collaterale è una polarizzazione che procede per slogan, non per sillogismi. Lì dove il romanzo americano, da Roth a Morrison, insegnava a tenere insieme contraddizione e ironia, ora regna la hot take da 280 caratteri.

Libertà, identità, AI. Nicole Krauss avverte sulle pagine del Washington Post sui rischi di una società che perde il rapporto con la lettura e la scrittura profonde, elementi essenziali per la nostra autodefinizione collettiva. Aggiungiamo l’IA generativa, capace di produrre testi‑clona in pochi secondi, e il paradosso si fa perfetto: mai avuta tanta “scrittura”, mai così poca letteratura. Le stesse case editrici sperimentano software che rielaborano manoscritti per “ottimizzare la trama”; il rischio è un ecosistema autoreferenziale in cui l’umano diventa plug‑in del mercato dati.

Specchio per l’Europa (e per l’Italia). Dall’altra sponda dell’Atlantico l’agonia si osserva con ambivalenza. Festival gremiti e book‑influencer dimostrano che la domanda di racconto esiste, ma le tirature restano fragili, la piccola‑media editoria sopravvive a margini sottili. Il mid‑cult nostrano, spesso liquidato con sufficienza, potrebbe però rivelarsi la zona cuscinetto che l’America ha perso: un luogo dove il romanzo di qualità incontra ancora un pubblico non numericamente irrilevante né esteticamente gentrificato. Se l’egemonia statunitense arretra, lo spazio lasciato libero può essere laboratorio, non solo antiquariato.

Cosa resta dell’egemonia? Non basta incolpare il “wokismo” o lo smartphone. La crisi è infrastrutturale prima che ideologica: una catena del valore spezzata dall’austerity accademica, da modelli di business miopi e da un paradigma cognitivo che privilegia la quantità di stimoli sulla qualità dell’esperienza. Quando Owen Yingling, citato dal manifesto, parla di «declino», non parla di gusto ma di filiera: senza vivaio non sboccia foresta. E una cultura che smette di raccontarsi in forma lunga finisce per narrarsi in forma triviale.

«Se il futuro del libro sarà una nicchia, decidiamo subito se farne un acquario elitario o un laboratorio di idee. In caso contrario, resterà solo il ronzio di fondo delle notifiche.»