Fulvio Pierangelini: l’arte di togliere

Dal Gambero Rosso alle cucine d’hotel: perché la verità degli ingredienti è ancora rivoluzionaria.

PASSIONE CUCINA

by Martin J. Osburton

9/3/20253 min leggere

Esiste, oggi, uno chef che non aggiunge, ma toglie? Che considera il piatto un gesto morale prima che tecnico? Sì: Fulvio Pierangelini, cuoco schivo e radicale, che ha trasformato l’essenzialità in stile, anzi in metodo.

Porto di San Vincenzo, anni Ottanta. In un locale affacciato sul mare nasce il Gambero Rosso (8 marzo 1980): pochi tavoli, luce salmastra, nessuna scenografia. Da lì Pierangelini costruisce un culto: due stelle Michelin e, nel 2008, il primato di “miglior chef d’Italia” per la guida del Gambero Rosso con 96/100. Nato a Roma l’11 maggio 1953, cresce con l’idea che il cuoco non intrattiene, custodisce. Il ristorante chiuderà poi, al culmine, nel novembre 2008. Tutto verificabile, niente leggende. Il locale guardava il porto: pochi coperti, tovaglie bianche, carta dei vini essenziale e marina. Niente scenografie: il libeccio bastava.

Sottrarre per dire la verità. La sua cucina è ascolto: della materia prima, della stagione, delle mani che pescano e raccolgono. L’icona è la passatina di ceci e gamberi (1985): un legume contadino incontra un crostaceo di costa. Pare semplice; non lo è. È armonia di temperature, iodio e dolcezza; una purea che profuma d’olio buono e una cottura “quanto basta” sui gamberi. Quell’idea — mare e campagna nello stesso cucchiaio — ha sdoganato i legumi nell’alta cucina italiana proprio quando l’alta cucina rincorreva avanguardie e geometrie. A distanza di decenni, quel gesto resta moderno, perché parla alla fame più antica: riconoscere un sapore e lasciarlo in pace.

La scelta del silenzio. Nel novembre 2008 quel tempio chiude. “I went away, I have no regrets” (Me ne sono andato, non ho rimpianti), racconterà più tardi: non una fuga, un atto di coerenza. Le cronache locali parlarono di motivi privati e ricordarono che il locale chiudeva al vertice: due stelle, 19,5/20 per l’Espresso, tre forchette della guida Gambero Rosso. Nella stessa stagione arriva anche la consacrazione internazionale: nella classifica World’s 50 Best 2008 il Gambero Rosso figura 13°. Piccola nota filologica: Wikipedia riporta il 12° posto; la pagina ufficiale 50 Best indica il 13° e, curiosamente, colloca il ristorante a Vernazza. Succede: anche le liste sbagliano geografia. L’importante è la sostanza. E intanto, i giorni della chiusura furono un piccolo lutto gastronomico: blog e cronache se ne riempirono.

Il maestro nell’ombra. Dopo la chiusura, Pierangelini evita la ribalta televisiva — una vera fortuna — e sceglie l'insegnamento diffuso, quasi carsico: oggi è Creative Director of Food per Rocco Forte Hotels. Cura menu, sceglie prodotti, costruisce squadre. Non “replica” piatti, semina un linguaggio: poco sale, zero teatrini, rispetto assoluto per ciò che entra in cucina. A Roma come a Palermo (Villa Igiea), la sua firma è una grammatica sobria e mediterranea. E un dettaglio racconta più di tante interviste: per cortesia verso un collega incuriosito dalla sua cucina, riaprì il vecchio ristorante per un solo giorno; ricevette una lettera che ancora conserva. Non marketing, memoria. (Nelle sue parole: è quasi un “direttore artistico” che crea i menu, sceglie i prodotti e definisce lo stile).

Cosa ci resta? In un’epoca in cui il cuoco rischia di diventare l’avatar del suo profilo, Pierangelini ci dice che cucinare è un atto di verità. Non per nostalgia — o forse un filo sì — ma per disciplina. Comprare bene, cuocere il giusto, parlare chiaro nel piatto. È un’etica che vale a casa come in un ristorante d’albergo: togli finché la cosa parla da sé. Oggi, tra algoritmi e storytelling, l’invito suona quasi disarmante: togli, e troverai la sostanza. Il resto è solo rumore di fondo.