Galassie incrociate: dalle visionarie di Seoul ai Ghost Cities di Brisbane

Quando la fantascienza coreana si tinge di voci femminili e la satira diasporica conquista il premio Miles Franklin, la letteratura mondiale riallinea le sue costellazioni narrative.

LETTERATURA

by Martin J. Osburton

7/31/20253 min leggere

L’asse immaginario Seoul‑Brisbane. Che la letteratura sia un telescopio puntato sul futuro non è una novità; a sorprendere, semmai, è il modo in cui oggi due estremità dell’emisfero asiatico‑pacifico stanno rifrangendo la luce narrativa. Da un lato, la Corea del Sud assiste a una silenziosa rivoluzione: le donne occupano la cabina di comando della fantascienza, trasformando un genere un tempo “per pochi” in laboratorio d’idee collettive. Dall’altro, l’Australia vede trionfare Siang Lu con Ghost Cities, romanzo che, tra humour assurdo e malinconia diasporica, ha strappato il Miles Franklin 2025 e scoperchiato il vaso di Pandora dell’identità post‑migrazione. Due orbite apparentemente distanti, eppure calamitanti nella stessa traiettoria: raccontare un presente che sente già il bruciore del futuro.

Le autrici che viaggiano più veloci della luce. Secondo il Korea JoongAng Daily, dal 2020 le lettrici superano stabilmente i lettori di fantascienza, toccando il 68% quest’anno, mentre quasi la metà dei nuovi scrittori premiati è donna — un ribaltamento che ha spinto il genere oltre le nicchie. Kim Cho‑yeop, Bora Chung, Kim Bo‑young e Jeong Soyeon non si limitano a creare universi paralleli: usano wormhole narrativi per interrogare algoritmo, lavoro, clima e corpo femminile. Nel loro immaginario, la stazione orbitale è anche un dormitorio precario, l’intelligenza artificiale un datore di lavoro low‑cost, l’asteroide una discarica di memorie di cui nessuno vuole farsi carico. La fantascienza, insomma, non è evasione: è lente d’ingrandimento puntata sulle faglie sociali, capace di far tremare il lettore più di qualsiasi buco nero.

Cinque anni di metamorfosi futuribile. Lo spartiacque è datato 2019, con la raccolta If We Can’t Go at the Speed of Light di Kim Cho‑yeop, bestseller che ha dimostrato come la speculazione metafisica potesse scalare le classifiche generaliste. Da allora, ogni stagione ha portato un nuovo tassello: l’adattamento hollywoodiano di A Thousand Blues di Cheon Seon‑ran, l’ibridazione coreano‑cinese dell’antologia Body, Again, e le piattaforme digitali che lanciano concorsi aperti a narrazioni “non ortodosse”. Il risultato è un ecosistema in cui la tecnologia non è mero tema ma metodo: podcast interattivi, web‑novel a rilascio episodico, traduzioni simultanee che girano sui social prima ancora di trovare carta. L’utopia – o la distopia – non è più cronaca del domani, ma commento spietato sull’oggi.

Il fantasma che ride: la lezione di Siang Lu. A quasi ottomila chilometri, Ghost Cities ribalta con ironia quel che le autrici coreane declinano in chiave lirica. Lu, scrittore sino‑malese approdato a Brisbane in tenera età, confeziona una “commedia del tiranno” dove un traduttore senza lingua madre diventa simbolo tragicomico di ogni ibridazione mancata. La giuria del Miles Franklin ha parlato di «grandiosa farsa e meditazione dilacerante sulla diaspora». Ma dietro la risata si nasconde l’acido che corrode i confini: città fantasma costruite per esibire, e mai per abitare; social‑media che decretano identità ed esilio con lo stesso clic; un imperatore grottesco che bandisce i polli per nascondere l’osso nel proprio passato. Se la fantascienza coreana dispone di microscopi, Lu brandisce lo specchio deformante del luna‑park: riflette il volto del lettore finché quest’ultimo, imbarazzato, non riconosce la propria maschera.

Cartografie letterarie del domani. Che cosa unisce questi orizzonti? La consapevolezza che immaginare è ormai atto politicissimo: chi possiede il racconto del futuro detiene la chiave per interpretare il presente. Le scrittrici di Seoul insinuano il dubbio che l’androide più pericoloso non sia quello che prende coscienza, ma quello programmato con pregiudizi ottocenteschi. Lu ricorda che anche l’umorismo, se attraversa dogane linguistiche, può diventare arma di sopravvivenza per le identità in transito. Così le geografie tradizionali della “World Literature” si incrinano; non più centri e periferie, ma galassie multiple in collisione, dove a illuminare la rotta sono stelle neonate, spesso femminili, spesso migranti. Chi legge – e magari scrive – non può che sentire l’urgenza di ridefinire la propria bussola, prima che il prossimo salto iperspaziale la renda obsoleta.

“Se le vecchie mappe finivano con la scritta ‘Hic sunt dracones’, le nuove non avranno margini: perché i draghi, oggi, siamo noi.”