Gaza, cinque “taccuini” ridotti in cenere

Veti, consensi e l’eterno equivoco dei caschi blu dell’ONU.

POLITICA ESTERA

by Martin J. Osburton

8/25/20253 min leggere

Nelle ultime ore un attacco vicino all’ospedale Nasser a Khan Younis ha ucciso almeno venti persone, tra cui cinque giornalisti. L’IDF ha ribadito che “non prende di mira i giornalisti”. Lo ripeto: possiamo litigare sulle parole, ma i corpi non sono sinonimi.

I fatti nudi, senza retorica (anzi, con una sola). Sul terreno la cronaca è brutale: un punto sanitario, una doppia esplosione, soccorritori che corrono e vengono travolti, taccuini e microfoni in frantumi. Cinque reporter tra i morti, dice Reuters; almeno quattro, conferma il Committee to Protect Journalists, con nomi e ruoli che cambiano a ogni ora—mi correggo: non cambiano i morti, cambiano i conteggi. L’IDF ribadisce le sue regole d’ingaggio, ma intanto il bilancio cresce. Nel frattempo, ventisette Paesi hanno chiesto l’accesso immediato alla Striscia per la stampa internazionale, ricordando che questo è già il conflitto più letale per i giornalisti dagli anni ’90. Non servono iperboli: i numeri bastano.

“Riconoscere” non basta: il nodo giuridico (e politico). In molti dicono: “Riconosciamo la Palestina e arrivano i caschi blu”. Magari. Ma la Palestina resta Stato osservatore all’ONU; il passaggio a membro pieno nel 2024 è stato bloccato da un veto statunitense in Consiglio di Sicurezza. Nel 2025 l’Assemblea Generale ha solo rafforzato alcune prerogative simboliche e procedurali, non la capacità di “chiamare” un contingente armato. In breve: il riconoscimento politico non si traduce in leva operativa. Per dispiegare peacekeepers servono due cose, insieme: mandato chiaro (meglio se sotto Capitolo VII, se la missione dev’essere “robusta”) e consenso effettivo delle parti sul terreno. Senza consenso—di chi controlla valichi e spazio aereo, oggi Israele, e delle autorità/attori armati palestinesi—i caschi blu restano… al confine. Non è cinismo: è il primo principio del peacekeeping.

Le tre strade (tutte in salita). Scenario A – Peacekeeping “classico” (Capitolo VI… e mezzo). Serve una sospensione delle ostilità vera, un invito scritto e un accordo sullo status delle forze (SOFA). Il precedente c’è: UNEF nel 1956 fu creato dall’Assemblea Generale e schierato dove c’era consenso; quando l’Egitto ritirò il via libera, la missione fu chiusa. Traduzione spiccia: senza consenso oggi, niente ingresso a Gaza. Scenario B – Peace enforcement (Capitolo VII). È l’uso della forza “per mandato”, anche senza consenso dei belligeranti.

Qui scatta il muro di gomma: in Consiglio di Sicurezza una risoluzione passa solo con nove voti e zero veti dei cinque permanenti. Facile dirlo, politicamente quasi impossibile ottenerlo adesso. Scenario C – Forza multinazionale “non‑ONU”. Un contingente regionale, magari arabo‑guidato con sostegno USA/UE, su compiti limitati (corridoi umanitari, valichi, sicurezza transitoria). Più flessibile, sì, ma richiede comunque intese operative con Israele per accessi e regole d’ingaggio; inoltre non sono “caschi blu”. È la collina più bassa, non la discesa.

L’equivoco dell’“Uniting for Peace”. C’è chi invoca l’Uniting for Peace: l’Assemblea Generale può aggirare i veti, dicono. Parzialmente vero. Quella risoluzione serve a spostare il peso politico, a raccomandare misure collettive, a creare pressioni e strumenti diplomatici. Ma non sostituisce, di per sé, il mandato coercitivo del Consiglio di Sicurezza. In altre parole: può accelerare, non può comandare. E lo dico senza piacevolezza, perché sarebbe utile il contrario.

Intanto, qui da noi: microfoni, non corridoi. Mentre a #Gaza si contano i morti, assistiamo alla solita gara a chi parla di cosa, ovviamente nel nostro Governo. Il lessico è impeccabile, la realtà no. “Tavoli”, “cabine di regia”, “roadmap” — supercazzole. La diplomazia? Ha fallito quando ha scambiato il tempo per soluzione. Nota polemica (necessaria): chi parla e non agisce vende applausi, non sicurezza. E scusate la franchezza: a forza di conferenze stampa, si rischia l’analfabetismo morale.

Qual è allora la mossa praticabile? Una sospensione delle ostilità verificabile. Un mandato limitato su corridoi umanitari e valichi. Una componente regionale riconoscibile e regole d’ingaggio chiare sulla protezione di civili e dei giornalisti. Una task force di monitoraggio accessi; rapporti pubblici settimanali; trasparenza totale su incidenti e accountability. La politica vive di legittimità; i popoli, di effettività. Fintanto che voti, valichi e veti non si allineano, i caschi blu restano una metafora. E i taccuini continuano a cadere.