Il bambino che ancora ci parla.
Cinquant’anni dopo Lettera a un bambino mai nato, la voce di Oriana Fallaci torna a interrogare l’Italia su libertà, responsabilità e futuro in un Paese a denatalità crescente.
LETTERATURA
by Martin J. Osburton
6/29/20253 min leggere


Mezzo secolo fa, 1975, una giovane reporter fiorentina consegnava alle stampe un libro‐lettera destinato a diventare un classico scomodo: “Lettera a un bambino mai nato” di Oriana Fallaci. Cinquant’anni dopo, quella voce che parlava al di là del grembo continua a bussare alle nostre coscienze, chiedendoci: che cosa significa davvero mettere (o non mettere) al mondo un essere umano oggi?
Quando la parola “madre” diventò rivoluzione. Nel 1975 l’Italia discuteva di aborto in tribunale, non nei talk‑show. Fallaci scelse l’unico tribunale che riconosceva davvero: la pagina bianca. Mise in scena il dialogo impossibile con un feto, infrangendo due tabù in un colpo solo: la maternità come destino obbligato e il diritto di una donna a dire “non me la sento”. Il libro bruciava di passione civile e, paradossalmente, di una religiosità laica: la responsabilità verso chi deve ancora venire al mondo.
Dal banco delle librerie al cuore del Paese. La Lettera vendette subito, ma il successo vero fu culturale. Precedette di tre anni la legge 194 e costrinse un Paese cattolico e machista a guardarsi allo specchio. Chi lo lesse — favorevole o contrario che fosse — dovette ammettere che la questione non era solo giuridica. Era esistenziale, poetica, politica. Fallaci, con la sua prosa tagliente, rese visibile ciò che stava nell’ombra: il conflitto fra desiderio di cura e desiderio di libertà.
Il “limbo” dei bambini che non nasceranno mai. Cinquant’anni dopo, la parola aborto convive con un’altra emergenza: la denatalità. I demografi parlano di un “popolo di bambini mai nati” che svuota asili, reparti di ostetricia, paesi di provincia. Il nodo è meno ideologico e più strutturale: precarietà, lavoro che divora il tempo, solitudini urbane. Se negli anni Settanta la battaglia era scegliere, oggi la sfida è potersi permettere quella scelta — in un senso o nell’altro. E intanto l’Italia resta fra i Paesi più vecchi d’Europa.
E se il futuro lo scrivesse l’Intelligenza Artificiale? La provocazione circola già nei convegni: incubatrici esterne, partner robotici, algoritmi che “ottimizzano” la fertilità. Di fronte a simili scenari, la lettera immaginaria di Oriana suona incredibilmente attuale. Ci ricorda che ogni nascita — naturale, assistita o digitale — chiede prima di tutto assunzione di senso. Non bastano gadget biotecnologici se continuiamo a vivere, come scriveva lei, “vite a metà, troppo stanche per amare interamente”.
Rileggerla oggi: tre piste di riflessione. Responsabilità condivisa; Fallaci partiva da sé ma chiamava in causa padri, legislatori, società. Oggi la corresponsabilità maschile resta un nodo irrisolto: i congedi paterni sono brevi, la cultura aziendale vaga. Ecologia della crescita. La scelta di generare non riguarda solo la coppia: è un atto ecologico. Ci obbliga a pensare spazi, politiche abitative, qualità dell’aria. Non basta alzare bonus bebè se le città sono ostili ai passeggini. Affettività futura. La parola chiave del libro è amore, non diritto. Fallaci temeva una società di orfani affettivi. Mezzo secolo dopo, il pericolo è reale: famiglie mononucleari, anziani senza nipoti, amicizie a schermo.
Una scrittura che spiazza ancora. Riaprire la Lettera significa riscoprire una lingua che alterna poesia e colpi di scalpello. «Se tu potessi parlare, forse mi diresti: lasciami andare… (dal libro Niente e così sia» scrive Fallaci, e noi sentiamo la vertigine del dubbio. Quella voce interna — ruvida, contraddittoria, indomita — sfida il politicamente corretto di oggi, sempre in cerca di un’etichetta rassicurante. E ci ricorda che la letteratura serve quando ferisce, non quando tranquillizza.
Perché celebrare (e non archiviare) Oriana Fallaci. Celebrarla non significa trasformarla in santino. Significa riconoscere che la sua scrittura fu laboratorio di dibattito civile, e che il dialogo fra generazioni passa anche per i libri che non abbiamo il coraggio di leggere in pubblico. Nel 2025 la Lettera compie 50 anni, ma l’età anagrafica è nostra: siamo noi che dobbiamo decidere se restare adolescenti democratici impauriti o diventare adulti capaci di scelte complesse.
Una chiamata alla penna — e alla culla. Chiudiamo allora con un invito doppio. Rileggete Fallaci, possibilmente ad alta voce: sentirete il peso delle parole che oggi maneggiamo troppo in fretta. E poi parlate — con la vostra compagna, con i vostri amici, con quel fratello che magari finge disinteresse. Parlare di aborto, di nascita, di desiderio, di paura, è l’unico modo per sottrarre il tema agli estremismi. Nel pensiero ‘fallaciano’ risuona l’idea che non esista vita senza libertà di scegliere e responsabilità di portarne il peso – un concetto che attraversa tutta la sua opera, pur senza comparire letteralmente nella Lettera.
La lezione di Oriana resta limpida: tutta la vita è un rischio, e voltargli le spalle è il modo più rapido per smettere di vivere davvero. La Lettera a un bambino mai nato compie cinquant’anni, ma il suo eco pulsa ancora fra i corridoi degli ospedali e le chat notturne di chi si chiede se e quando diventare genitore. Far tacere quella voce sarebbe comodo. Ascoltarla, invece, potrebbe farci riscoprire un Paese disposto a scommettere sulla cura prima che sul calcolo.
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