Il prezzo del microfono: quando l’informazione si inginocchia
L’esempio di Emilio Fede e la lunga stagione del servilismo televisivo in Italia.
SOCIETÀ
by Martin J. Osburton
9/5/20252 min leggere


Diciamolo: il giornalismo non è un altare, ma neppure un inginocchiatoio. La morte di Emilio Fede, 94 anni, chiude simbolicamente un’epoca in cui il notiziario diventò megafono. Un fatto, non un umore.
Un caso‑scuola, non un capro espiatorio. Per vent’anni Fede ha diretto e condotto il TG4 (1992–2012), facendone un prodotto identitario: toni assertivi, linguaggio da “bollettino”, commento incorporato alla notizia. Le biografie concordano sul tratto: linea editoriale scopertamente schierata. L’Independent, nel 2006, lo definì “il più partigiano dei conduttori” e ricordò perfino le sanzioni per sbilanciamento in campagna elettorale. No, non è il folklore: è un modo di intendere il mestiere.
Il diritto non è una formalità: la par condicio. L’Italia si è data una legge, la 28/2000, per garantire equilibrio nell’accesso ai media durante le campagne. Non un vezzo, ma un freno alla trasformazione dei telegiornali in comizi. Proprio il TG4 di Fede è finito più volte sotto la lente dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni: tra le sanzioni, una da 100.000 euro per mancato “equilibrio” tra i partiti in vista del voto, oltre ad altri provvedimenti richiamati nelle delibere. La cronaca, non l’opinione, certifica un modello di informazione sbilanciata.
Il confine tra vita pubblica e privata non assolve il giornale‐tv. La parabola di Fede non è solo televisiva. Nel 2019 la Cassazione ha reso definitiva la condanna nel procedimento Ruby bis (4 anni e 7 mesi per favoreggiamento della prostituzione, con pena poi eseguita in misure alternative). Non entra qui il giudizio morale; entra un dato che pesa sulla credibilità di chi plasma l’agenda pubblica. Quando il volto del telegiornale si muove nella zona grigia, la fiducia collettiva evapora. Evapora, sì.
Come ci siamo arrivati: dagli anni Novanta alla tv‑arena. La storia è anche struttura. Negli anni Novanta, con la moltiplicazione dei canali e l’onda lunga dell’“infotainment”, il talk politico ibrida conversazione e propaganda; il giornalista diventa opinionista fisso, la notizia diventa storyline. Ricerche e cronache dell’epoca raccontano l’esplosione dei format socio‑politici e il passaggio dalla “cronaca” al “frame”. Dentro questo ecosistema, un direttore guerriero era perfettamente funzionale. Funzionale, non inevitabile.
Perché l’esempio di Fede ci riguarda ancora. Primo: perché il “giornalismo‑tifo” si replica facile sui social, dove l’algoritmo premia la militanza rispetto alla verifica. Secondo: perché gli incentivi economici restano gli stessi—share, click, rendita di posizione; e quando l’editore coincide con l’agenda politica, la tentazione dell’allineamento cresce. Terzo: perché la platea, noi, spesso scambia il tono deciso per autorevolezza. E chi sbaglia? Non solo chi parla, anche chi ascolta senza domandare: chi ha il controllo della scaletta? chi distingue notizia e opinione? chi pubblica i criteri di scelta degli ospiti? Domande semplici, scomode, necessarie.
Un epilogo che vale come monito. La scomparsa di Emilio Fede (2 settembre 2025, presso la residenza San Felice a Segrate) ha il peso simbolico di una stagione che molti—troppi—hanno scambiato per normalità. Non è stata normalità: è stato genere. Un genere che ha prodotto audience e, insieme, una diseducazione civica. Sta a noi—lettori, scriventi, editori—decidere se replicarlo o archiviarlo. L'informazione non deve compiacere il capo di turno: deve disturbare, verificare, correggersi. Anche ad alta voce, anche con un “mi sono spiegato male, rettifico”.
Se il microfono s’inginocchia, la democrazia parla a bassa voce; alziamola noi, con fatti e contraddittorio—sempre.
Riflessioni
Uno spazio per pensare oltre la superficie.
Creatività
martin@osburton.com
+?? ??? ??????? - vuoi sapere il mio numero di telefono ? Clicca qui.
© 2025. Tutti i diritti sono riservati.