Jean François Piège, l’alchimista della borghesia
Sotto il velluto di Parigi, una cucina che fonde memoria, tecnica e desiderio.
PASSIONE CUCINA
by Martin J. Osburton
8/1/20252 min leggere


Il ruggito della tradizione. La Poule au Pot compie novant’anni e Piège decide di spegnere le candeline a Manhattan, fianco a fianco con Daniel Boulud: un pop‑up di quattro serate, un libro—My French Cuisine at La Poule au Pot—e cento ricette tradotte per chi, dall’altra parte dell’Atlantico, ancora dubita che la cuisine bourgeoise possa parlare inglese senza perdere l’accento.
È un gesto di elegante ostentazione: portare nel cuore di New York la casseruola che un tempo bolliva nel Marais significa dichiarare che il comfort food francese ha ancora cartucce d’autore da sparare. Sotto il mio palato—e la mia penna—la nostalgia diventa proiettile di sapori: morbido pollo, cipolle caramellate, un brodo che sussurra storie di nonne dimenticate. Piège non sfida il passato, lo veste con un tight su misura e lo fa sfilare sul red carpet mondiale.
Il teatro da venti coperti. Chi varca la soglia de Le Grand Restaurant—venti posti, luce di specchi fumé e tappeti soffocati dal silenzio—entra in una camera iperbarica del gusto: cotture a bassa pressione che non violentano l’aroma, ma lo dilatano finché riempie i timpani come un violoncello. I famigerati “Mijotés Modernes” ribaltano l’equazione tempo‑temperatura: lo stufato diventa esercizio di levitazione, la salsa un filamento d’ambra che tutto avvolge. Qui Piège è demiurgo: calibra l’umidità, dosa la centrifuga emotiva dei commensali, cesella il ricordo ancor prima che il boccone tocchi la lingua. E, aggiungo, lo fa senza quella crudeltà di chi vuole stupire a ogni costo—l’ego (non il mio) resta dietro le quinte, lasciando parlare il burro che fruscia come seta.
Cartografia dei terroir. Da un anno il menu ruota come una giostra: Bretagna, Provenza, Béarn… Ogni mese un territorio, ogni piatto un telegramma di sapidità: ostriche in abito di sidro, agnello che profuma di maquis, grano antico tostato fino a sgranare ricordi rurali. L’ossessione per la filiera corta si sposa con la trilogia “Zéro” —grassi, carne, sprechi—che Piège ha codificato in libri tascabili; l’ultimo, Zéro Gaspi, consegna al lettore la possibilità di non buttare via nemmeno l’ombra di un porro. È sostenibilità senza retorica: l’eleganza non si misura più in carati di caviale, ma nel silenzio del bidone dell’umido.
L’uomo oltre il riflettore. Che sia la “Boîte Noire” di Top Chef o un incidente domestico da prima pagina—un home‑jacking da centocinquantamila euro di bottino—Piège conosce la pressione di una celebrità che brucia più dei fornelli. La risposta? Diversificare: una candela Jo Malone che riproduce il vapore di riso e un esercito di follower che cliccano estasiati. Ma dietro le quinte c’è un ragazzo cresciuto all’Élysée e temprato dal “Maestro” Alain Ducasse, che ha imparato a disinnescare la vanità con una sola arma: il sapore (la saveur). Ed è qui che mi congedo, l’ultima briciola sul tovagliolo, convinto che la grandezza di Piège non sia nell’abitare i palazzi della critica, ma nel convincerci che la memoria può ancora essere servita fumante.
Chi non trova poesia in una casseruola, non merita di alzare il coperchio…
Riflessioni
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Creatività
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