L'accordo UE-USA: costi e benefici della nuova intesa transatlantica
Tra dazi al 15%, shopping planetario di Treasury e GNL, e l’ombra lunga di un nuovo vassallaggio.
ECONOMIA
by Martin J. Osburton
7/28/20252 min leggere


Una stretta di mano che pesa come un macigno. Fatto l’accordo, trovato l’inganno: con un sorriso istituzionale e qualche pacca sulla spalla, Bruxelles ha appena firmato un patto che impone un dazio del 15 % su quasi tutte le esportazioni verso gli Stati Uniti—dalla pasta ai microchip—pur di evitare un’ulteriore escalation tariffaria. In cambio l’Unione destinerà 600 miliardi $ all’acquisto di asset americani e 750 miliardi $ a contratti energetici “made in USA”. Una cifra che, di fatto, spalanca il portafoglio europeo a Washington con concessioni americane limitate rispetto alle richieste europee.
Dazi, debiti e cannoni: la triplice cambiale. Il pacchetto non si esaurisce alla frontiera doganale. Il vertice NATO (giugno 2025) ha stabilito il nuovo obiettivo di destinare il 5% del PIL alla difesa entro il 2035, superando il precedente target del 2%, con la retorica della “sicurezza collettiva” a mascherare l’aumento di commesse belliche verso i colossi statunitensi. Ora, con l’obbligo di piazzare 600 miliardi $ in investimenti aggiuntivi negli Stati Uniti, includendo potenzialmente strumenti finanziari diversificati, l’Europa si trasforma in cassettista d’oltreoceano; con i 750 miliardi di GNL, petrolio e forse nucleare a stelle e strisce, diventa cliente captive di un solo fornitore mentre chiude il rubinetto delle fonti “economicamente scomode” ma finora convenienti.
Il gioco della coperta corta: welfare sotto assedio. Nessuna alchimia di bilancio può celare l'aritmetica: se la spesa militare e le maxi-forniture energetiche divorano centinaia di miliardi, istruzione, sanità e inevitabilmente le pensioni finiscono sul banco dei pegni. I governi di Parigi, Roma o Berlino potranno pure lodare la "stabilità" garantita da Washington, ma dovranno spiegare ai propri cittadini perché questi impegni finanziari potrebbero comportare pressioni sui servizi pubblici mentre si finanziano armamenti che forse non useremo mai. Il rischio sistemico non è (solo) economico: è politico. Svuotare il welfare per riempire arsenali significa allargare il fosso sociale proprio mentre l'inflazione energetica potrebbe erodere ulteriormente salari già sotto pressione.
Le ragioni di Bruxelles: evitare il peggio. Dal lato europeo, l'accordo evita scenari peggiori ipotizzati nei mesi scorsi, quando si paventavano dazi fino al 30%. Alcuni analisti sottolineano come gli investimenti energetici possano accelerare la transizione verso l'indipendenza da fornitori meno affidabili, mentre il rafforzamento della difesa risponde a minacce geopolitiche concrete nell'Est Europa.
Vie di fuga o vicoli ciechi? Di fronte a una cambiale così onerosa, l’Europa ha due opzioni: coltivare la mitologia del “male necessario” oppure esercitare la propria sovranità strategica. La prima via perpetua un modello neo‑feudale di relazioni transatlantiche—vassallaggio soft, obblighi hard. La seconda richiede coraggio politico: diversificare mercati (India? ASEAN?), investire davvero in rinnovabili domestiche, negoziare da pari con Washington invece di accettare condizioni scritte su carta intestata USA. L’impresa è ardua; l’alternativa è il lento declino competitivo, con le imprese europee intrappolate in un mercato americano sempre più caro e in quelli emergenti dove, senza un robusto piano industriale, non reggiamo il confronto sui costi. La vera partita si gioca ora su come (e se) l’UE saprà allentare la dipendenza. “Se il futuro è un banchetto, l’Europa ha appena consegnato il menù… e si è seduta a tavola con il portafoglio vuoto. Bon appétit!”
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