Maccheroni, moralismo & propaganda
Cronache di una valle — e di certi direttori — che servono pasta tiepida e retorica bollente.
POLITICA
by Martin J. Osburton
7/6/20252 min leggere


Che articolo puerile! Ma che altro ci si può attendere da chi impugna la penna come la stessa forchetta con cui ingoia maccheroni a casaccio? E, si sa, il pesce comincia sempre a puzzare dalla testa.
Sono un uomo di destra, dichiarato senza rossori. Amo la Costituzione nata dalla Resistenza, non rimpiango l’orbace, e detesto le camicie — nere, rosse o arcobaleno — quando soffocano il pensiero. È dunque possibile essere di destra e antifascisti allo stesso tempo? Ovvio che sì. Il problema non è la parola “antifascismo” — nobile, doverosa — ma l’uso cosmetico che ne fanno i sacerdoti del pensiero unico con il grembiule da cuoco.
Prendiamo la “pastasciutta antifascista”: un’idea genuina dei Cervi nel ’43, oggi trasformata in sagra di provincia dai professionisti dell’indignazione. Bollono qualche quintale di maccheroni, spolverano formaggio e Virtù Civile, poi distribuiscono selfie e titoloni. Neanche il marketing di una marca di dentifricio sarebbe tanto smaccato. Ma guai a sollevare un sopracciglio: verresti subito spedito in infermeria con la diagnosi di nostalgico.
Ed eccolo, puntuale, il trombettiere di turno. Il ‘direttore’ di un quotidiano locale on line — che dorme con la sveglia programmata sul fuso orario di centrosinistra — scatta sull’attenti. La valle discute di turismo, acqua, legno? No, lui preferisce lanciare ‘editoriali’ al peperoncino contro chi osa definir “folklore” una forchettata di pasta politicizzata. Nei suoi pezzi la parola antifascista compare più volte di verità nella Treccani, ma il retrogusto rimane quello: l’elogio della purezza, purché garantisca click e pacche sulle spalle dal padrone di partito.
È una scena già vista: il moralismo à la carte. In tavola c’è l’obbligo d’indignarsi, non importa per cosa. Domani basterà un cappuccino “resistente” o un bagnoschiuma “partigiano” e il coro ripartirà. Non si tratta di memoria, bensì di merchandising delle coscienze: un’etichetta prêt-à-porter che assolve i compagni di banco e condanna chiunque non reciti lo slogan corretto. Chi osa dubitare “non ha capito la storia” – comodo espediente per non discutere mai nel merito.
Eppure, la storia è cruda, non al dente: ci dice che l’Italia repubblicana è nata sulla libertà di parola anche di chi non brucia incenso davanti ai santini progressisti. Si può amare la patria, detestare i totalitarismi e, nello stesso tempo, trovare grottesco il culto liturgico dei maccheroni politicamente corretti. Il vero antidoto al fascismo (e ai suoi cugini) è il pluralismo, non la ripetizione ossessiva di un aggettivo come lasciapassare morale.
Agli aspiranti crociati del fornello vorrei ricordare che la democrazia non vive di menu tematici ma di idee in competizione. Se l’unico argomento rimasto è sbandierare una pentola di penne come vessillo identitario, allora la Resistenza è davvero ridotta a condimento. E se un direttore, invece di stimolare un dibattito adulto, preferisce agitare la clava retorica per qualche clic, non fa informazione: confeziona fideismo travestito da cronaca.
Insomma, cucinate pure la pasta che volete: burro, formaggio o sottovuoto mediatico. Ma lasciateci il diritto di dire che certe sagre dell’autocelebrazione sanno di tiepido. Il fascismo fu tragedia; l’antifascismo, dovere. Il loro ricordo merita rispetto, non marketing. E se per dirlo serve un pizzico di sarcasmo, pazienza: meglio un po’ di pepe che l’ennesima sbrodolata di sugo morale.
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