Micromondi di carta: Tampa e la rinascita politica dei  Zine

Nel cuore della Florida, tra birre artigianali e forbici affilate, l’International Zine Month rivela perché il self publishing resta l’ultima frontiera dell’autonomia culturale.

LETTERATURA

by Martin J. Osburton

7/26/20252 min leggere

Una pratica ancestrale che resiste. Dalle prime pubblicazioni amatoriali di fantascienza degli anni trenta all’ondata punk degli ottanta, il Zine si è imposto come gesto di resistenza: carta piegata, graffette e, soprattutto, libertà di dire ciò che altrove è inascoltato. Se oggi celebriamo l’International Zine Month lo dobbiamo ad Alex Wrekk, che nel 2009 codificò luglio come stagione del DIY globale — e il 21 come Zine Library Day, rito laico di condivisione. In un’epoca governata dagli algoritmi, questo “torno‑subito” editoriale porta con sé la promessa di una voce non mediata, di un discorso che precede la filiera del consenso.

Tampa, laboratorio di comunità. Sabato sera, Deviant Libation brulicava di zinester: forbici, colla, ritagli e la birra che scioglie la timidezza. M Calins, alias them nightingale, incollava slogan antiautoritari su cartoncino nero, mentre Nick esponeva titoli che oscillavano tra ansia cosmica e satira culinaria; poco distante, Charlie Suor vendeva per un dollaro “Transylvanian Horror”, trattato queer sull’identificazione‑mostro. Qui la fiera non è mercato ma assemblea: si scambiano consigli, fotocopie, spalle su cui poggiare la fragilità di chi — soprattutto nelle comunità LGBTQ+cerca un luogo per esistere senza filtri.

Contenuti oltre il mainstream. Le pagine sono minuscole ma i campi semantici sterminati: identità trans, ecologia radicale, salute mentale, contro‑narrazioni BIPOC, manuali di mutuo‑soccorso. Bird Flu and You dialoga con St. Pete Pride Turned Me Straight mentre un pieghevole su H5N1 convive con un alfabetiere per marker Crayola; micro‑saggi che smontano la cronaca ufficiale ricucendo vissuti marginali. Chi cerca coerenza di collana non la troverà: il caos editoriale è dichiarazione di poetica, riflesso di un mondo plurale che l’industria tende a lisciare in collane omogenee.

Politica dell’oggetto e dialettica digitale. Il fascino del foglio piegato in otto non esclude la mutazione in PDF: le stesse opere circolano su Patreon, Discord, Mastodon, creando un doppio pubblico — tattile e cloud — che raddoppia l’impatto. Ma la materia resiste: il costo irrisorio, l’estetica imperfetta, l’odore di toner sanciscono l’anarchia dell’oggetto. Là dove l’algoritmo sorveglia la timeline, il zine offre un’esperienza “off‑grid”, una dialettica fra mano e pixel che ricorda al lettore la propria corporalità e, al contempo, la possibilità di una distribuzione reticolare senza dazi né gatekeeper.

Oltre l’hic et nunc: il futuro dei piccoli formati. Ciò che accade a Tampa è specchio di una rete planetaria: festival da Miami a Tallahassee, distro itineranti, maker‑space che fungono da “tree fort” per autori esordienti. La domanda non è più se il zine sopravviverà, ma quale ruolo giocherà nel paesaggio informativo del post‑capitalismo cognitivo. Forse diventerà archivio di micro‑storie altrimenti invisibili; forse palestra di nuove grammatiche critiche. In ogni caso, mentre l’editoria mainstream insegue linee di profitto, questi quaderni clandestini continuano a ribadire il diritto a una narrazione polifonica e inalienabile. Finché esisterà un foglio clandestino capace di piegarsi in tasca, la letteratura non avrà padroni — e la democrazia, almeno su carta, dormirà sonni meno inquieti.