Ostriche, tofu e tacchi a spillo: chi sta cambiando la montagna?

Dal rifugio ancora al rifugio palcoscenico. Identità, sicurezza, cucina e un caso concreto.

TERRITORIO

by Martin J. Osburton

8/11/20253 min leggere

Una volta il rifugio era riparo e calorie. Oggi, a quota 2.600, trovi menù vegani e tisane. È snobismo? Forse; O forse è un adattamento—non sempre elegante, d’accordo. Io però lo dico subito: sono un tradizionalista e la montagna, per me, è a senso unico.

Il caso che accende il dibattito è l’Orestes Hütte (Gressoney, Monte Rosa): gestione Squinobal, cucina 100% vegana per scelta etica e ambientale. Non è folklore: è un progetto nato da una promessa di famiglia e diventato linea di condotta. Emil Squinobal ha spiegato che "c’è chi torna a valle arrabbiato perché non serviamo Coca‑Cola o carne… ma i tempi sono cambiati". Insomma: un rifugio che non insegue il turista gli propone una visione—e si prende il rischio. il Dolomiti

Sul “come”, la sostanza pesa più dello slogan. L’Orestes lavora su impatto ridotto: coibentazione, 65 m² di solare termico con accumulo da 5.000 litri, pompa di calore aria‑acqua da 45 kW, backup a gas per i giorni peggiori. Non è autosufficienza romantica, è ingegneria gentile. E poi un dettaglio simbolico: "non vendiamo acqua in bottiglia, utilizziamo la sorgente"; parte dell’energia elettrica è prodotta in proprio. Qui il gesto ambientale si vede, non si proclama.

A scanso di equivoci: non sto facendo l’ufficio stampa del tofu. Mettiamola giù dura. Nel 2024 il Soccorso Alpino ha contato 12.063 missioni, 11.789 persone soccorse e 466 morti; la voce più incidentata è l’escursionismo, non l’alpinismo estremo. È la prova che la montagna non è un feed: chiede scarponi, allenamento, acqua (sì), meteo, prudenza. Il resto—che sia luganega o burger vegetale—viene dopo.

E la tradizione? Non si tutela a colpi di nostalgia. A fare da contrappunto, a 4.554 metri sulla Punta Gnifetti, c’è la Capanna Margherita, il rifugio più alto d’Europa: laboratorio dell’alpinismo classico e della ricerca in quota, icona di un’epoca in cui si parlava poco e si saliva molto. La storia non è un recinto: è un’eredità che chiede coerenza, non mummificazione.

Da anni vedo di tutto sui sentieri: ciabatte che scivolano sul pietrisco, tacchi a spillo piantati nell’erba come paletti da slalom, e — perché no — ostriche e champagne serviti a 2.500 metri, come se la vetta fosse la terrazza di un Grand Hotel. Poi arriva la notizia: un rifugio solo vegano… in montagna? Questa mi mancava. Mentre le guide e i soccorritori si sgolano per ricordare scarponi seri, preparazione e buon senso, dall’altra parte si riscrive il copione delle usanze alpine: addio luganega fumante, addio tosèla ai ferri, benvenuto tofu marinato con vista ghiacciaio.

Nel suo vecchio regno il Kaiser (Franz Joseph I) probabilmente si starà rivoltando nella tomba, chiedendosi se alla prossima arriveranno anche il sushi e la salsa di soia. Non è un anatema — ognuno in quota mangi pure quello che vuole — ma è una presa di posizione netta, quasi una dichiarazione di stile. E il punto è che l’identità della montagna, anche gastronomica, non è un dettaglio: è parte della sua anima. Cambiala pure, se vuoi… ma sappi che la neve non si scioglie per una foto su Instagram.

La domanda vera, dunque, non è “chi ha ragione”, ma chi porta responsabilità. Il CAI da anni spinge su fruizione responsabile e sostenibilità: energia, rifiuti, acqua, filiere locali. Qui l’Orestes è un outlier coerente (piaccia o no), un laboratorio di convivenza tra cultura walser e tecnologie pulite. Dall’altra parte, i rifugi che conservano polenta, tosèla, vino robusto custodiscono un patrimonio simbolico e calorico che non va smarrito.

Non è un derby tra bowl e brentèla: è la stessa montagna che chiede serietà—prima del menù. A cambiare la montagna non sono il tofu o i tacchi, ma il nostro modo di stare in montagna. La quota è una maestra inflessibile: premia chi studia la carta, allaccia gli scarponi e rispetta il luogo. Il resto è contorno—buono o meno, a piacere.