Per favore, non aprite quella scatoletta

Dal Vaffa Day alla carezza della poltrona: autopsia tragicomica di un sogno a Cinque Stelle.

POLITICA

by Martin J. Osburton

6/29/20254 min leggere

C’erano una volta le famose scatolette di tonno. I “ragazzi” eletti di Beppe Grillo le agitavano come maracas in una piazza ruggente, promettendo di aprirle e di far uscire, in un’esplosione di sardine democratiche, tutti i miasmi della “casta”. Dentro c’era di tutto: stipendi stellari, vitalizi imbalsamati, scontrini muti che si facevano improvvisamente loquaci di fronte al grillino controllore. Sembrava l’alba di una nuova igiene pubblica, la rivoluzione dei pulitori armati di mouse e streaming. Il Paese, sensibile alla promessa di ogni purga rigeneratrice, ci credette ancora una volta – come ci credette ai manettari di ieri, ai tecnici di domani e ai rottamatori dell’altro ieri.

Poi è arrivato il virus. Non un nuovo ceppo di Covid, ma quello antico, universale, perenne: la poltrona‑ite. Colpisce lentamente, quasi per stadi. Al primo giro in Parlamento ti senti un visitatore al museo: “Guarda, mamma, i busti di Cavour!”. Al secondo mandato diventi guida turistica: accompagni i neofiti tra i corridoi, spieghi dove si prende il caffè buono, dove si vota senza svenarsi di fatica. Al terzo, quello che ora il Movimento 5 Stelle vuole sdoganare per Roberto Fico (più volte “presidente” che “cittadino qualunque”), la poltrona non è più una seduta ma un arto, un’estensione naturale del corpo. Prova a tagliarla e sanguina.

La parabola dell’innocenza smarrita. Ricordate l’“uno vale uno”? Era il mantra buddista di un Occidente tech‑hippy convinto che bastasse un clic per decidere la sorte di un Paese di sessanta milioni di anime. Finita l’orgia di clic, scoprirono che le leggi sono faccende arcigne, i bilanci cavano lacrime, le alleanze puzzano ma servono. Così, passo dopo passo, la giovane marmotta pentastellata trascinò nei sotterranei lo statuto‑totem: prima l’addio alle alleanze “mai con nessuno”, poi lo stop ai giri di valzer sui rimborsi, infine l’ultimo prosciugamento di idealità: via il limite dei due mandati. Serviva? Certo. Una classe politica con l’avversione cronica alla competenza partorisce gaffe a ciclo continuo.

Eppure, la scena è irresistibile nella sua comicità amara. Giuseppe “Giuseppi” Conte – l’avvocato del popolo sceso dai velluti di Palazzo Chigi per domesticare i ragazzi dell’hotel dei grillini – annuncia la svolta con toni pastorali: “È l’atto di maturità, la fine dell’adolescenza politica”. Gli fa eco l’assemblea online: votanti meno di un dopolavoro ferroviario, percentuale bulgara, entusiasmo da “consegna Prime”. Chi pagò dieci euro per iscriversi alla piattaforma Rousseau (pace all’anima sua) forse oggi non ricorda nemmeno la password. E Casaleggio padre, in qualche galassia digitale, pigia F5 invano.

Scontrini parlanti, portafogli urlanti. Tra le rovine di quell’utopia low cost, giacciono gli scontrini parlanti – le note spese che dovevano disegnare la calligrafia limpida della nuova classe dirigente. Finì che gli scontrini parlarono davvero, ma per raccontare ben altre solfe: Uber strisciato come taxi, cene social a tre portate dichiarate come “briefing operativo”, viaggi intercontinentali per “meetup”. Nasceva una liturgia tragicomica: il grillino si auto‑scorticava l’indennità con dirette Facebook soffuse, salvo poi scoprire che tra tasse, affitti romani e pensiline in attesa di Italo, restava in tasca ben poco del forfait. “Perché lo faccio?”, domandava agli amici. Perché il potere, o ciò che gli somiglia, fa più endorfina di una maratona.

Dilettanti allo sbaraglio? Più o meno. Qui sta il punto. Il dilettante idealista illude, il professionista navigato delude. Nel mezzo c’è il cittadino normale che sfoglia la cronaca e si chiede da che parte tagliare la frittata: “Voglio l’anestesista al primo intervento o quello al decimo?”. Peccato che la risposta persa nel bivio sia un’altra: voglio un anestesista che non dimentichi di essere, prima di tutto, un paziente a sua volta. Tradotto: l’esperienza è un valore, ma se la usi per restare incollato alla poltrona entri in quella palude che giuravi di prosciugare.

La grande disillusione. Ecco, la sensazione diffusa – fra gli elettori che riempivano piazze, gli studenti che citavano Bauman e gli anziani che appendevano la bandiera dell’onestà sul balcone – è di un déjà‑vu sfinito. L’ennesimo appuntamento mancato con la Storia. Ci avevano detto che avremmo evacuato il Parlamento dagli avvocati del diavolo; invece, abbiamo partorito avvocati del popolo (ma popolo di chi?); che avremmo messo online ogni delibera, e ora gli streaming languono come canali di televendita. Ci promettevano il taglio dei compensi, ma nel frattempo la diaria è diventata terapia sostitutiva a base di rimborsi flessibili. Doveva essere la democrazia diretta, è diventata la democrazia a chiamata: suona il campanello, il capo‑politico decide chi resta e chi esce. La ruota gira, la casta resta: muta la livrea, non l’istinto.

Chiusura (con ghigno). A chi obietta che tutto ciò fosse inevitabile – “la politica è mestiere, ragazzi” – rispondo con un sorriso levantino: vero, ma nessuno costringeva a sbandierare l’inesperienza come virtù fondante. Se ti presenti in sala operatoria sventolando lo slogan “basta chirurghi”, non sorprenderti se poi i pazienti preferiscono il bisturi esperto al tuo entusiasmo sterile.

Il Movimento 5 Stelle, nato nella temperie post‑crisi come antidoto al cinismo partitico, ha riscoperto la legge ferrea di tutti i movimenti plebei che fanno il giro completo della giostra: parte plebiscitario, si siede moderato, finisce governativo. Non è un dramma, è la commedia eterna. Quella che prende gli italiani ogni volta che credono al canto delle sirene che promettono mare pulito e trovano, all’attracco, la solita taverna con i tavolini traballanti ma il conto salato.

La scatoletta di tonno? È rimasta chiusa. Ma, a occhio, comincia a gonfiarsi. Scommettiamo che prima o poi esploderà?