Ponza, isola di margine
Reportage di viaggio tra mito, scogliere e silenzi.
TERRITORIO
by Martin J. Osburton
8/12/20254 min leggere


Ponza si apre a lembi, come un libro che ha preso il mare: pagine piegate, salate, ancora leggibili. La guardi e già ti sfugge. La tocchi—no, la sfiori—e ti resta addosso come una promessa non mantenuta.
Ponza è un’isola vulcanica e di tufo, levigata da secoli di vento e risacca: un mosaico di cale raggiungibili a piedi o solo dal mare, grotte che respirano luce quando la risacca si fa docile, sentieri che finiscono nel nulla. Anche la geologia sussurra storie: alterazioni idrotermali, minerali come la kaolinite, tracce d’un fuoco antico imprigionato nella roccia. È il cuore dei Ponzesi, davanti alle coste del Lazio, covo d’acqua chiara e scogliere color crema. Molte insenature si concedono davvero soltanto via mare—regola non scritta dell’arcipelago, e funziona, sì—mentre la Grotta Azzurra dell’isola si offre quando il mare è di buon umore.


Dinnanzi a noi, i magnifici faraglioni di Lucia Rosa, i garanti di Ponza, come amo definirli. Creste verticali che si ergono come guardiani di un’arte millenaria. La leggenda narra di una fanciulla, in un amore negato dal padre che ahimè scelse il volo dalla scogliera. La chiamarono Lucia, e quelle rocce presero il suo nome (leggenda che si colloca indicativamente tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800).
La prima volta che li vidi—era un’altra epoca, o forse soltanto un altro me—ero su un aliscafo diretto a Ventotene, altra meraviglia ma questa è un’altra storia. Ero solo con mia madre; non c’era mio padre. Ricordo quel classico gusto salmastro misto all’odore del gasolio delle imbarcazioni. Il resto? Nebbia benevola. Restano loro, quei pilastri nel sole, come una frase breve tatuata sulla pelle. (le isole hanno memoria selettiva, più severa della nostra.) La storia, riportata da guide locali e racconti tramandati, è rimasta cucita nelle carte nautiche e al cuore meraviglioso dei ponzesi.


Costeggio verso il porto, oltre Frontone, e il ritmo cambia. Barche lucide cariche di pesce filano tra le creste, poi rallentano in prossimità del bacino. Noi pure, fino al pontile assegnato. L’ultimo colpo di frizione, la cima in bitta, e cala quel senso di definizione che divide il mondo: acqua da una parte, terra dall’altra. Il borgo si mostra in case colorate, qui l’idea di società è ben diversa da quella che conosciamo, addossate al costone, una striscia di strada, una spiaggia stretta con barche tirate a secco come animali stanchi. Qui il mare convive con i Romani: la Galleria scavata per raggiungere Chiaia di Luna—oggi chiusa e in sicurezza per le frane—resiste come una cicatrice millenaria nella roccia; e poco più in là le Grotte di Pilato, vasche a livello d’acqua scavate per allevare murene, delizia aristocratica, ingegneria d’altri secoli che ancora sorprende. (Era un’industria del gusto, in fondo.)
A Ponza il fuori stagione è una grazia. Agosto—confessiamolo—non è per tutti: il mare ridotto a fondale per aperitivi, il passo accelerato, la fretta che toglie salinità all’aria. Fuori stagione, invece, la luce scende presto e il vento porta odore di mirto; i pescatori si piegano sulle reti con la pazienza dei gesti tramandati. Alle piscine naturali di Cala Feola l’acqua è chiara come vetro cristallino; il “Fontone” scolpito dalla stessa mano che inventò l’isola. Si nuota in conche rocciose pettinate dal vulcano, le barchette ai ripari negli anfratti, un paio di discese verso il mare, e tutto si riduce a pochi verbi essenziali: guardare, tacere, entrare. (Sì, anche uscire.)


Scendiamo per un caffè e due passi—non è un’allegoria; è proprio un bar improvvisato—‘with’ tavolini sbilenchi e il sospetto che sia stato montato un minuto prima. Nel disordine vivo del porto—scafi, secchi, reti, motorini—si aprono schegge d’azzurro tra un molo e l’altro, come pensieri che non riesci a reprimere. Vorrei restare. Dormire in barca. Essere cullato dal profumo delle ginestre e dal suono delle grotte che respirano, vivono; o salire di quota e guardare l’isola dall’alto, come facevo da ragazzo, quando le isole erano tutte mistero e nessuna delusione. Qui torna la Circe del mito, la costa che unisce Monte Circeo a Gaeta passando per questi scogli—la chiamano Riviera di Ulisse—e comprendi come il racconto antico non sia un lusso erudito, ma una funzione del paesaggio. (Se non ci fosse, lo inventeremmo comunque.)


Ponza, diciamolo chiaramente, è un’isola di margine. Non nel senso di periferia, ma come bordo vivo del foglio: uno spazio dove accadono le note a matita, le postille, i ripensamenti. Arrivare da terra è tornare; arrivare dal mare è lambire. Qui si vive bene nell’imperfetto: un’onda un po’ torbida, una scala sbrecciata, un forno che sforna tardi—ma il pane è buono, accidenti se lo è! Potresti raccontarla con i numeri di un dépliant; eppure, è nelle sottrazioni che l’isola trova la sua forma.
Cala una sera senza pretese, e capisci la regola segreta: certe isole non si possiedono. Le sfiori. Ti segnano. E ripartendo, hai quella sensazione ridicola—ma vera—di aver lasciato qualcosa di non tuo. Restano poche cose: il mare, due parole non dette, un faraglione nel sole. Il resto—lo ammetto—è solo nostalgia che sa nuotare…


Riflessioni
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