Portafogli a fisarmonica: la politica che si dà la mancia

Mentre i contratti di molti lavoratori arrancano, le indennità dei rappresentanti crescono in automatico: un congegno perfetto che fa lievitare l’assegno senza nemmeno alzare la mano.

POLITICA

by Martin J. Osburton

7/1/20253 min leggere

Il rito in commissione. C’è un’aria di routine nei corridoi rivestiti di moquette: si discute di assestamento di bilancio, si sfogliano tabelle, si alza la mano per dire “sì” oppure “no”. Eppure, dietro quella liturgia apparentemente grigia, si gioca una partita che vale più di una manciata di cifre: è il principio di equità – o la sua clamorosa negazione.

La maggioranza, blindata da accordi interni, ha respinto di misura un emendamento che chiedeva di sganciare le indennità dei consiglieri dal rinnovo dei contratti pubblici regionali. Sei contrari, cinque favorevoli, un astenuto: tanto è bastato per mantenere in vita un meccanismo che aggancia lo stipendio dei rappresentanti ai futuri aumenti previsti per i dipendenti. Un congegno autopropulsivo: poco importa se i contratti dei dipendenti arrivano con il contagocce o se l’inflazione rosicchia le buste paga dei comuni mortali – lassù, a palazzo, la leva resta sempre tirata verso l’alto.

La cifra che non mente. I numeri, si sa, hanno il vezzo di essere impietosi. Dal primo gennaio 2025 le indennità dei consiglieri sono salite del 10,7 %: 1.117 euro lordi in più ogni mese, per un totale che sfiora 11.564 euro mensili. Ma il colpo di teatro è arrivato in primavera: quasi 20.000 euro di arretrati piovuti come grandine, retroattivi sul 2022 e 2023, con una terza rata in arrivo per il 2024. Non è un errore di battitura: è il frutto di quella norma, votata nel 2023, che ha sostituito la vecchia rivalutazione Istat con l’ancoraggio alle retribuzioni del pubblico impiego. Un atto di prestidigitazione legislativa che trasforma ogni contratto firmato dai dipendenti in un bancomat per chi siede sugli scranni.

Il paradosso del palazzo. L’assestamento approvato vale complessivamente 119 milioni. Tra i capitoli spiccano 146.000 euro destinati al Fondo per il sostegno della famiglia e dell’occupazione – cifra nobile ma, in proporzione, quasi ornamentale – e i 10 milioni (cinque per provincia) per la cosiddetta “pensione alle casalinghe”, un riconoscimento tardivo a chi ha maturato almeno quindici anni di contributi domestici prima del 2004. Misure lodevoli? Certo. Ma fanno il paio con quelle riconferme d’ufficio che, un rigo più su, garantiscono la mensilità dorata a chi già guadagna cifre a cinque zeri.

È qui che il paradosso prende forma: mentre il legislatore si compiace di distribuire mance sociali, difende con le unghie il cordone ombelicale che lo collega al portafogli dei lavoratori pubblici. Il risultato è un cortocircuito morale: chi dovrebbe dare l’esempio si ritrova, invece, a navigare in un mare di benefit indicizzati.

L’etica a gettone. C’è un altro dettaglio che val la pena di illuminare: gli stessi rappresentanti che incassano l’aumento dovranno, in teoria, discutere nella stessa aula il rinnovo dei contratti 2025‑2027 da cui dipenderanno i loro futuri scatti. Una danza autoreferenziale, con la musica pagata dalla collettività.

Eppure, il dibattito pubblico rimane flebile. Qualche voce si leva, ma l’indignazione non oltrepassa la soglia dei talk‑show. Forse ci stiamo abituando all’idea che la politica sia un club esclusivo, dove il biglietto d’ingresso costa caro e la quota associativa cresce di anno in anno, impermeabile a crisi, pandemie e guerre sul prezzo del pane.

Questione di prospettiva. In un Paese dove il salario mediano sfiora i 1.800 euro netti, leggere di stipendi che superano i 11.000 lordi al mese fa l’effetto di un pugno nello stomaco. Ma il vero punto non è il divario, bensì il principio di automatismo. Perché la politica – ci hanno insegnato – dovrebbe essere servizio, non rendita retributiva con clausola di adeguamento perpetuo.

Se davvero si volesse ridare dignità alla rappresentanza, bisognerebbe ristabilire un legame virtuoso fra performance e compenso, fra responsabilità e beneficio economico. È una sfida culturale prima che contabile, e riguarda tanto chi sta dentro il palazzo quanto chi, fuori, continua a credere che la democrazia meriti fiducia.

Un filo di pepe... Se i contratti dei cittadini languono e le indennità dei loro rappresentanti volano, forse abbiamo capovolto l’ordine naturale delle cose: è la montagna che partorisce il topolino… ma a peso d’oro e a spese del topolino stesso. Ché poi, dopo aver incassato l’ennesima rata, qualcuno avrà pure il coraggio di dirci che “non ci sono risorse”. Ci fosse almeno la sincerità di aggiungere: “…per voi”.