Quando il monsone sale sul palcoscenico

L’Harihar National Theatre Festival di Bhopal trasforma il diluvio estivo in una sinfonia di miti antichi, ricerca accademica e rigenerazione urbana destinata a far scuola oltre l’India.

ARTE

by Martin J. Osburton

7/24/20253 min leggere

Il monsone non si limita a bagnare le strade di Bhopal (24–29 luglio): lo si avverte nell’odore di terra rinnovata, nei laghi che debordano di specchi mobili, nella pelle che trattiene umidità e stupore. È dentro questa sospensione acquatica che il sipario – letteralmente – si schiude stasera al Ravindra Bhavan. L’opera inaugurale, “Samudra Manthan” di Chittaranjan  Tripathy, rievoca la cosmica “zangolatura” dell’oceano: dèi e demòni che mescolano l’acqua finché dal caos sgorga l’amṛta. È un mito di origine, certo, ma anche un manuale di sopravvivenza estetica: ricordarci che ogni crisi, climatica o sociale, può stillare un elisir creativo. Non a caso gli organizzatori parlano di «monsoon mosaic» – un collage liquido di emozioni che solo la pioggia sa accordare.

I numeri screziano il quadro con rigore accademico: oltre duecento artisti e ricercatori di quindici scuole di teatro, dall’Università del Panjab alla DY Patil, fino alla Bhartendu Natya Academy. Sei sere, tre sale, un seminario parallelo sul “Bharatmuni National Symposium” che ha per bussola il Natyashastra, trattato‑madre di tutte le arti performative indiane. Figure come Swapnokalpa Dasgupta, rinomata danzatrice Odissi e direttrice del programma di danza al NCPA di Mumbai, o Ankit Mishra faranno da mentori ai giovani dramaturghi, mentre la direttrice Sandhya Purecha, illustre esponente di Bharatanatyam e presidente della Sangeet Natak Akademi, porterà in scena la sua tragedia 'Sheela'.. Qui la tradizione non è reliquia, ma radice che s’incunea nel presente: studiare la metrica dei rasa per narrare precarietà lavorativa, identità fluide, forme di potere che mutano più in fretta delle nuvole.

Eppure, il festival non nasce in laboratorio, bensì nella relazione osmotica fra clima e corpo. La pioggia dilata le pause drammatiche, modula la voce, impone all’attore di respirare più lentamente: in sanscrito prāṇa e loka – respiro e mondo – condividono la stessa vibrazione. Chi osserva “Mohe Piya”, diretta da Waman Kendre, percepisce che il ritmo delle gocce sul tetto filtra nella partitura, come avviene per certe ragas monsoniche dell’India centrale. Il teatro, allora, diventa meteorologia incarnata: una stazione di ascolto dove il pubblico registra variazioni di umidità emotiva impensabili in condizioni di clima secco.

La scelta di Bhopal è tutt’altro che neutra. Città ferita nella memoria industriale, oggi sperimenta politiche di rigenerazione artistico‑culturale che rifiutano la retorica dell’“evento cosmetico”. Il circuito dei tre auditorium è stato ridisegnato per favorire gli spostamenti a piedi, riducendo traffico e inquinamento; il biglietto “pay what you can” garantisce accesso inclusivo; le residenze d’artista coinvolgono scuole locali di scenografia e artigiani del legno. È un’economia circolare della performance: le scene si costruiscono con materiali riciclati, le sceneggiature condivide un repository aperto, gli archivi video andranno alle università partner per future ricerche.

Il modello interroga anche l’Europa mediterranea. Se la piovosità indiana modella la grammatica scenica, perché non immaginare un “Teatro dei Garbì” a Genova, o una “Biennale delle Nevi” fra le Dolomiti, dove la temperatura non è un ostacolo ma un co‑autore dell’opera? L’esperienza di Bhopal suggerisce tre coordinate esportabili: (1) alleanza strutturale con gli atenei, che forniscono ricerca e pubblico critico; (2) calendarizzazione attorno a fenomeni atmosferici per inscenare il paesaggio invece di subirlo; (3) governance sostenibile che redistribuisca know‑how alla comunità. Non si tratta di folklore esotico, ma di un pensiero tecnico‑politico sulla funzione stessa del teatro nel XXI secolo.

Chi teme che il sacro venga annacquato dall’innovazione trovi conforto nella sequenza finale di “Suvasantak”, curata da Padma Shri Puru Dadheech: i danzatori disegnano mudrā millenarie mentre un video mapping proietta dati su siccità e migrazioni. È l’epifania di un’estetica ibrida dove mito e demografia, pioggia battente e pixel, coesistono senza chiedere il permesso. Il pubblico – studenti con smartphone e anziani devoti con rosari di rudraksha – applaude in sincronìa, e in quell’applauso riconosce la propria, fragile, identità comune. «Se l’arte è davvero il luogo dove l’acqua diventa parola, allora la prossima rivoluzione non passerà dai confini degli Stati, ma dalle nuvole che osiamo portare in scena…»