Quando la bandiera diventa spartito.
Mengoni, la Palestina e l’attivismo prêt-à-porter che suona bene ma fa poco rumore.
SOCIETÀ
by Martin J. Osburton
6/28/20252 min leggere


C’è un attimo, allo stadio Maradona di Napoli, in cui la musica si ferma e l’applauso diventa ruggito. Marco Mengoni solleva la bandiera palestinese, la poggia sulla spalla e, con la voce rotta dall’enfasi, scocca la sua freccia verbale: «Magari arriva anche a quelle teste di “epiteto non ripetibile”».
L’urlo è liberatorio, la platea esplode, i cellulari registrano. Ma che succede, davvero, quando un artista trasforma il palco in tribuna politica?
Dal pop all’apocalisse in tre accordi. Il tour annunciava «visual apocalittici». Detto, fatto: costumi da fine-del-mondo, luci rosso sangue, slogan contro «lo sterminio che non ci riguarda» e un monito sul disastro di non andare a votare. Tutto giusto, tutto nobile. Però la scena dura il tempo di un ritornello: la band attacca il pezzo successivo e l’indignazione collettiva evapora, come bollicine di backstage.
Il vento sulle zattere dell’Adige. A centinaia di chilometri, Trento celebra le Feste Vigiliane. Sul podio del Palio dell’Oca gli zatterieri di San Lazzaro sventolano la stessa bandiera palestinese: «Vogliamo smuovere le coscienze». Gesto coraggioso? Certo. Ma anche qui, un lampo: la folla applaude, i fotografi scattano, e il corteo riparte verso la “tonca” con lo stesso entusiasmo etilico di sempre.
Lessico in saldo: «genocidio». C’è una parola che pesa come piombo e viene lanciata come coriandolo: genocidio. Da qualche mese è diventata una virgola retorica, un amplificatore emotivo. Chi la usa ‒ spesso ‒ non ha letto la Convenzione ONU del 1948 né si prende la briga di distinguerla da guerra, massacro, pulizia etnica. È il paradosso dell’indignazione ipersonica: più gridi «genocidio», più rischi di svuotarlo di senso, come succede ai saldi di fine stagione.
L’arte come selfie politico. Non è la prima volta che il pop cavalca cause umanitarie ‒ dagli U2 al Live Aid. Ma oggi la viralità è la misura di tutto: il gesto deve stare in un reel da quindici secondi, altrimenti non esiste. Così l’artista si convince di aver compiuto il proprio dovere civico; il pubblico si sente assolto con un like; la politica, quella vera, ringrazia e prosegue indisturbata.
Dal palco all’urna (quella vera). Mengoni denuncia l’astensionismo, ma quanti fra i 40-mila del Maradona andranno davvero alle urne? E quanti zatterieri di Trento tradurranno lo sventolio del vessillo in una richiesta concreta alla loro amministrazione? La morale dell’icona rischia di diventare un alibi: mi basta un simbolo per illudermi di aver scelto da che parte stare.
L’arte del silenzio che manca. Potremmo, una volta tanto, fermarci a cercare parole meno roboanti, più esatte. Perché “parola esatta” = responsabilità: se tutto è genocidio, niente lo è più; se tutti sono «teste di c…», nessuno si sente chiamato in causa. La memoria ‒ quella dell’Olocausto, che commemoriamo a gennaio ‒ pretende rigore, non slang.
Epilogo: oltre il cliché della lattina “Free Palestine”. Non serve imbalsamare gli artisti nel politicamente muto. Serve, semmai, chiedere loro lo stesso rigore che pretendono dai potenti: studi, numeri, contesto. Se invochi il voto, spiega perché; se brandisci una bandiera, racconta la storia che l’ha cucita. Altrimenti resteremo prigionieri di un’attitudine pop-coscienziosa: un sorso di cola palestinese, un selfie, un hashtag, e via verso il prossimo show.
La prossima volta che il palco si accenderà di verde-bianco-nero, ricordiamolo: la vera luce non è il riflettore, è la consapevolezza. E quella non si alimenta a led, ma a studio, partecipazione, coraggio ‒ magari in cabina elettorale, non solo su Instagram.
Riflessioni
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