Report, il giorno in cui il servizio pubblico ha smesso di servire

Un’invettiva per chi ancora crede che il televisore non sia un mero soprammobile luminescente.

SOCIETÀ

by Martin J. Osburton

6/29/20254 min leggere

Esiste un filo sottile—anzi, sempre più sottile—fra informare e intrattenere. Un filo che, nella televisione generalista, dovrebbe reggere il peso della democrazia: dall’altra parte dello schermo c’è un popolo che paga il canone non per essere cullato da drammi in prima serata, ma per ricevere chiavi di lettura sul mondo. Eppure, proprio quel filo oggi viene reciso con destrezza chirurgica: meno puntate per il più longevo programma d’inchiesta della nostra TV pubblica, più ore per i salotti pomeridiani che tritano dolore a ritmo di share. Sto parlando del taglio di ben quattro puntate della trasmissione Report condotta dall’ottimo Sigfrido Ranucci.

Non è l’ennesima schermaglia fra conduttori e dirigenti: è una resa culturale, la capitolazione dell’approfondimento dinanzi al varietà travestito da notiziario. Da un lato, una redazione che macina chilometri, setaccia archivi, rischia la pelle in scenari di guerra o pandemia; dall’altro, show che banchettano su casi di cronaca nera come fossero pranzi di gala, con ospiti ed “esperti” di vario genere (qualcuno anche pregiudicato) di turno che versa lacrime telegeniche sotto le luci dello studio.

L’alibi del “gusto del pubblico”. Chi decide i palinsesti brandisce un mantra: “Lo chiede il mercato”. È l’alibi perfetto. Peccato che proprio le ricerche commissionate dalla stessa azienda, come ha citato lo stesso Ranucci—quelle che restano chiuse nei cassetti finché conviene—raccontino altro: i telespettatori continuano a valutare l’inchiesta come il volto più credibile e utile del servizio pubblico. Eppure, il taglio arriva lo stesso, chirurgico e implacabile: quattro puntate in meno qui, mezz’ora in più là, quell’ora e mezza rubata alle domande scomode per darla a un talk dove le domande non disturbano nessuno.

Il risultato? Un palinsesto che suona come un’orchestra stonata: la grancassa del gossip copre il violino della verifica, il coro del “tutto andrà bene” zittisce il solista che denuncia storture e malaffare. A qualcuno può sembrare un’evoluzione naturale—la TV che si fa leggera come un social network—ma è, in realtà, una potatura dell’intelligenza collettiva.

Gli invisibili dietro la telecamera. Dentro quella redazione mutilata siedono giornalisti a partita IVA, tecnici che hanno lasciato la propria città inseguendo un sogno di rigore e di verità. Sono loro i primi a pagare il prezzo della nuova stagione: meno puntate significa meno contratti, meno tutele, meno futuro. È facile liquidare la questione con un’alzata di spalle— “succede ovunque” —ma qui la faccenda è diversa: parliamo di un programma che, per quindici anni consecutivi, ha incarnato l’idea stessa di utilità sociale. Tagliarlo non è soltanto questione di budget: è una dichiarazione di intenti, un segnale alle redazioni che ancora si ostinano a scavare dove il potere preferirebbe non essere disturbato.

Il grande equivoco dell’“infotainment”. Chi governa il telecomando nazionale ama coniare parole d’effetto: infotainment, storytelling, cross-media. Dietro i neologismi, però, c’è un’altra realtà: lo spostamento dell’asse narrativo dalla verifica dei fatti alla spettacolarizzazione dell’emozione. La cronaca di un femminicidio diventa un feuilleton a puntate; l’alluvione un set a cielo aperto da collegare con l’ombrello brandizzato; la tragedia, insomma, si fa sceneggiato.

Eppure, la storia insegna che emozione e conoscenza non sono termini in conflitto. L’inchiesta più riuscita è spesso quella che commuove e indigna insieme, perché mostra il volto umano dell’abuso di potere. Ma qui si chiede tutt’altro: non si vuole cittadinanza emotiva, si pretende voyeurismo; non si vuole diffondere cultura civica, si insegue l’istantanea virale. Il dolore altrui diventa la nuova moneta di scambio, valutata al centesimo sul listino degli ascolti.

Un Paese che smette di farsi domande. Quando la televisione pubblica rinuncia al dubbio per abbracciare la chiacchiera, l’eco raggiunge le osterie, gli autobus, le cene di famiglia. Se alle otto e mezza di sera non c’è più chi racconta i conflitti d’interesse, domani al bar nessuno chiederà conto dei contratti d’appalto. Se la corruzione non fa più audience, diventa un passatempo come un altro. È un effetto domino: meno inchieste, meno consapevolezza, meno partecipazione, una democrazia anestetizzata che confonde la compassione con la comprensione.

Che fare, allora? Non basta indignarsi sui social, non basta cambiare canale. Occorre ricordare ai vertici—e a noi stessi—che il servizio pubblico è un patto: in cambio del canone, il cittadino riceve strumenti critici, non favole consolatorie. Occorre sostenere chi, in quella redazione dimezzata, continua a scavare con lo zelo dei monaci amanuensi, copiando atti giudiziari invece di salmodiare pettegolezzi. Occorre pretendere che il Governo e il Parlamento (nota dolente ahimè), azionista di riferimento dell’azienda, chieda conto di decisioni che penalizzano l’informazione per favorire il varietà.

Perché se c’è una cosa che la storia ci ha insegnato è che la libertà non muore all’improvviso: si spegne a piccoli tagli, quattro puntate alla volta. Oggi togliamo una serata di inchiesta, domani un’inchiesta intera, dopodomani ci svegliamo con la TV dei tempi passati—lì sì che la realtà era “in diretta”, ma solo quella autorizzata dal potente di turno.

Quando gli archivi racconteranno questa stagione televisiva, forse scriveranno che fu l’era in cui la verità fu giudicata fuori formato, il dubbio fuori target. Dipenderà da noi, spettatori e cittadini, evitare che quella pagina si chiuda con un mesto “fine delle trasmissioni”.

Perché un Paese che spegne la luce sull’inchiesta è un Paese che accetta di camminare al buio. E senza lampioni di verifica, i vicoli si riempiono presto di ombre—ombre che non amano essere raccontate, ma che adorano dormire sonni tranquilli sotto la coperta spessa dell’indifferenza.