Sottomarini in arrivo: la diplomazia atomica di Trump tra tweet, ultimatum e “pace stabile”
Quando il bottone rosso diventa trending topic, è il momento di chiedersi chi stia davvero giocando con il futuro del pianeta.
POLITICA ESTERA
by Martin J. Osburton
8/4/20253 min leggere


Due click su Truth Social, un ultimatum da dieci giorni a Mosca e – zac – l’ordine di riposizionare due sottomarini nucleari “nelle regioni appropriate”. Donald Trump trasforma un botta‑e‑risposta online con Dmitry Medvedev nell’ennesimo esercizio di deterrenza muscolare. Nel frattempo, Vladimir Putin parla di “pace duratura e stabile” ma senza concessioni. Sullo sfondo, analisti occidentali (e perfino un ex alto funzionario del Kgb) minimizzano il rischio di Apocalisse… pur ricordandoci che con il nucleare le parole contano – eccome se contano.
L’ordine lampo dall’Ovale. “Le parole sono importanti e possono generare conseguenze indesiderate”: così Trump ha spiegato la decisione di inviare i battelli a propulsione (e forse armamento) nucleare a ridosso delle acque russe, dopo che Medvedev aveva bollato il suo ultimatum come “passo verso la guerra”. Il Pentagono tace sulle coordinate – prassi ovvia – ma la mossa rompe un tabù: rarissimo che un presidente USA discuta in pubblico il dispiegamento dei sottomarini Ohio‑class, spina dorsale della triade strategica.
Medvedev, il “falco da tastiera”. L’ex presidente russo, ora vice del Consiglio di sicurezza, twitta (anzi, posta su X) in orari notturni, lanciando stoccate al gusto di nostalgia sovietica. Stavolta ha ricordato a Trump che “ogni nuovo ultimatum è una minaccia… non fra Russia e Ucraina, ma col tuo stesso Paese”. Attacchi verbali che il Cremlino usa per testare i nervi occidentali? Possibile.
Secondo un ex dirigente dell’intelligence russa – oggi critico di Putin – il gioco è speculare: spaventare l’opinione pubblica con scenari da fine del mondo per strappare concessioni. Trump, replicando con i sottomarini, mostra di non voler più abboccare. Peccato che, osserva lo stesso analista, “quando il bluff non funziona, a Mosca resta comunque l’arsenale”.
Rischio escalation o teatro politico? Esperti di sicurezza negli Stati Uniti parlano di “escalation retorica, non operativa”: gli Ohio sono già dispiegati 24/7, non serve spostarli per tenere Mosca nel mirino. Anzi, pubblicizzare lo spostamento rischia di creare una “commitment trap”: se l’avversario rilancia, l’opinione pubblica si aspetta il colpo grosso.
L’ex numero uno del Kgb di Mosca ridimensiona i timori atomici: l’Ucraina non è sull’orlo di una sconfitta tipo Cuba ’62 o Sinai ’73, dunque il termometro nucleare resta sotto lo zero. Ma avverte: il Cremlino ha preso nota del riferimento esplicito ai sottomarini classe Ohio – capaci, da soli, di azzerare i silos russi. Un promemoria che a Mosca “fa comunque un certo effetto”.
Putin e la “pace su solide fondamenta”. Mentre Trump alza il volume, il presidente russo ripete il ritornello: “Serve una pace duratura e stabile che garantisca la sicurezza di entrambi i Paesi”. Tradotto: Kiev deve accettare condizioni finora giudicate inaccettabili. Fra dichiarazioni di ottimismo (“i colloqui procedono positivamente”) e nuovi raid su infrastrutture ucraine, il Cremlino appare più interessato a logorare che a negoziare.
E qui torna l’ironia: Trump promette di chiudere la guerra “in 24 ore”, ma accusa Putin di sabotare ogni spiraglio di tregua. Chi davvero lucra sulla tensione?
Deterrenza, propaganda e quel bottone che nessuno vuole premere. Kissinger aveva teorizzato l'"equilibrio del terrore" nel 1957, concetto che nel '73 - durante la crisi del Kippur - mise alla prova portando il mondo sull'orlo del conflitto nucleare. Oggi siamo all'equilibrio del tweet: basta un post per spostare un sommergibile, impennare i futures sul petrolio e congestionarci le timeline.
Gli strateghi ricordano che un singolo Ohio‑class trasporta fino a 24 Trident II (ognuno con testate multiple): deterrenza assicurata, escalation quasi suicida. Allora perché suonare il campanello nucleare?
Perché funziona. Putin lo usa da anni per dividere l’Occidente, Trump per mostrare i muscoli agli elettori. Ma, ammonisce il nostro insider russo, con leader “ideologizzati” come Xi, Kim, Khamenei e lo stesso Putin, la sola lingua compresa è la forza della deterrenza. Un paradosso: parlare di bomba per non farla esplodere.
La partita dei sottomarini‑tweet ricorda una partita a scacchi giocata su un tavolo inclinato: ogni mossa appare titanica, ma basta un colpo di gomito – un refuso, un’interpretazione errata – perché i pezzi rotolino a valle.
E allora la domanda: è davvero saggio affidare la stabilità strategica globale a 280 caratteri e a notti insonni trascorse sui social? Forse, prima di muovere acciaio atomico negli abissi, bisognerebbe – piccolo dettaglio – rimettere sul tavolo la vecchia arte della diplomazia, meno scintillante ma infinitamente più solida di un hashtag.
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