Temptation Island brucia la cultura mentre Andrea Bajani accende lo Strega.
Il reality delle corna, dei pianti e delle carezze proibite cambia spiaggia ma non anima: una lezione di seduzione al vuoto, impartita in prima serata, proprio mentre la letteratura festeggia e nessuno sembra accorgersene.
SOCIETÀ
by Martin J. Osburton
7/4/20254 min leggere


«Temptation Island è il programma di Maria De Filippi sulle corna, sui pianti, sui confronti attorno al falò, sulle tentazioni sessuali che a volte vanno in porto e a volte no.»
Il passaggio, tratto dal testo che mi avete affidato, è già un editoriale in miniatura. In una riga si concentrano gelosia, tradimento, rito televisivo e un lessico — “corna”, “pianti” — che non concede scampo. Da tredici stagioni la trasmissione ci propone lo stesso esperimento di laboratorio: prendete sette coppie in crisi, sparpagliatele in un resort ottimamente fotogenico — quest’anno il Calalandrusa Beach & Nature Resort di Guardavalle Marina, in Calabria — e osservate come reagiscono all’urto di tentatrici e tentatori selezionati per brillare, più che per parlare.
Il teatro mobile del sentimentalismo. Cambiano le palme sullo sfondo, non il copione. Il «falò di confronto» — così lo chiama la liturgia ‘defilippiana’ — promette catarsi ma regala quasi sempre pura prossemica dell’imbarazzo: lui che si gratta il mento, lei che sbatte le ciglia umide, un video di trenta secondi a pavimentare settimane di convivenza. La regia insiste sui dettagli epidermici, come a ricordarci che il pathos contemporaneo passa dallo zoom, non dalla narrazione. È qui che il trash diventa metodo: isolando frammenti emozionali, li libera dal peso del contesto e li consegna al consumo compulsivo.
Eppure, la domanda resta: che cosa ci insegna? Gli apologeti parlano di sociologia pop; i detrattori di pornografia emozionale. La verità, temo, è che impariamo ben poco sui sentimenti e moltissimo sulla televisione stessa, la quale ha capito che l’unico peccato capitale rimasto è la noia. Il tradimento non scandalizza più, ma la lentezza sì.
Maria, regina o mercante? «Maria è l’indiscussa regina del pop, del trash, del camp e anche un po’ dell’hardcore… o è solo un’abile venditrice di sentimentalismi, un tanto al chilo?»
La formula non contempla contraddizioni: è regina perché mercante. Le sue monete sono le lacrime misurate in share. In un Paese che ha trasformato il familismo nella propria grammatica, esibire la famiglia in agonia è un atto sovversivo quanto redditizio. Lo sa benissimo la conduttrice–imprenditrice, che vende coppia come un servizio in abbonamento: a ogni stagione una crisi, a ogni crisi un cliff‑hanger.
Trash 1, Cultura 0. Mentre il falò brucia, a Roma si aprono altre fiamme, per fortuna, — quelle dell’arte che resiste, che vibra, pulsa. Il 3 luglio 2025 Andrea Bajani alza il Premio Strega per L’anniversario (Feltrinelli). Un romanzo costruito sul tempo, sulla memoria e sul dolore privato che diventa pubblico, vero falò interiore. Eppure, basta sfogliare i trending topic di quella sera per scoprire che la maggior parte delle conversazioni verte sulle corna calabresi, non sulla letteratura etrusca di Villa Giulia. Trash 1, Cultura 0: il punteggio fa male, ma è preciso.
Qui non si tratta di snobismo. È questione di distribuzione dell’attenzione, la moneta scarsa del nostro secolo. Ogni minuto speso davanti all’ennesimo replay di un bacio rubato è un minuto sottratto alla complessità, all’argomento lungo, all’opera che chiede lentezza. Se “cornificazione di coppia” — la definizione è vostra, e la faccio mia — diventa lo sport nazionale, la partita della cultura si gioca in inferiorità numerica.
Il voyeurismo come anestetico. Perché, allora, scegliamo l’isola della tentazione anziché la foresta dei simboli? Perché il paradigma dominante non è più la ricerca di senso ma la sospensione del dolore: guadare drammi altrui serve a sopire i nostri. Il falò funziona come uno specchio rovesciato: non vogliamo riconoscerci nei protagonisti, desideriamo piuttosto sentirci migliori di loro, rassicurarci che la nostra ordinarietà è virtù. In questo senso “Temptation Island” è meno reality e più social media ante‑litteram: la fruizione non si esaurisce nel programma, prolifera nei meme, nelle clip verticali, negli sticker di WhatsApp. È l’ecosistema perfetto per una società polarizzata tra l’urgenza di apparire e il terrore di sparire.
Dal mito alla merce. Chi invoca Pasolini lo fa a buon diritto: egli avrebbe fiutato la mutazione antropologica che trasforma l’eros in prodotto. Ma forse occorre evocare anche Aristotele: lì dove la tragedia greca sublimava la hybris, qui assistiamo a una mimetica della post‑privacy, dove l’errore non è l’infedeltà ma l’ammissione di vulnerabilità. Il pubblico applaude non il ravvedimento, bensì la perseveranza nell’eccesso: più lacrime, più clip, più algoritmi.
L’alfabeto emotivo semplificato. Fedeltà, tradimento, gelosia: tre lemmi che la trasmissione riduce a emoji. È un corso accelerato di semplificazione linguistica: si piange, ergo si ama; si ride, ergo si tradisce. Tutto il resto — dubbi, silenzi, reticenze — scompare nel montaggio. Lo spettatore apprende, suo malgrado, che l’interiorità non è televisiva; ciò che non si vede non esiste. È la pedagogia del qui‑e‑ora, compatibile con smartphone e parallasse temporale di dieci secondi.
L’altra lezione, più nascosta. Eppure, qualcosa il programma ci insegna davvero: quanto siamo disposti a cedere di noi per un attimo di visibilità. I protagonisti barattano la propria identità sentimentale per un time slot di prime‑time magari un “Trono” da Maria; noi barattiamo il nostro spirito critico per un paio d’ore di intrattenimento. Il vero reality, allora, è nel salotto di chi guarda, non “sull’isola”.
Il bivio. «A voi la scelta». Ebbene, la scelta è radicale ma non manichea. Non si tratta di spegnere la TV e chiudersi in biblioteca: si tratta di ri‑alfabetizzare il nostro sguardo. Possiamo aguzzare l’intelletto anche di fronte a uno spettacolo dichiaratamente trash, purché lo attraversiamo con la stessa serietà critica che dedichiamo a Bajani. Possiamo chiederci che cosa rivela di noi il sorriso complice che scocca quando una coppia scoppia; possiamo prendere il reality come specchio deformante e poi guardare altrove per ritrovare proporzione.
Se non lo faremo, il punteggio resterà invariato e il falò consumerà ciò che di migliore abita la nostra attenzione. Ma se decideremo che la letteratura, la filosofia, la riflessione — quella vera — non sono hobby per élite ma linfa per la polis, allora la partita non è chiusa. In fondo, il falò può anche scaldare: sta a noi scegliere se usarlo per bruciare libri o per leggere alla sua luce.
Trash 1, Cultura 0? Solo fino al prossimo voto della nostra coscienza critica.
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