Tra banchi di pesci e rivolte creative

Festival, drammi regionali e la resistenza del racconto.

ARTE

by Martin J. Osburton

8/29/20253 min leggere

Sulle pietre del Lido il cinema cammina con due gambe: glamour e bit. Tappeti rossi, certo. Ma anche una Sala Web Theatre che apre finestre ovunque. Oggi, più che un festival, è un ponte—anzi, un traghetto—tra sala e schermo domestico.

Venezia taglia il nastro della sua 82ª edizione e rilancia la propria doppia natura: rito collettivo e piattaforma. Le star sfilano, i flash ricamano luce; dietro, i server ronzano. Il red carpet scintilla, ma il racconto si allunga nel digitale, dove l’accesso si apre (non sempre) e i tempi si comprimono. Il Lido torna crocevia di sguardi, con presenze internazionali e una macchina dei sogni che riparte a braccetto con la sua ombra tecnologica.

Nel cuore di questo passaggio, la Sala Web Theatre funziona da stress‑test del domani: quattro lungometraggi della Biennale College Cinema e tredici cortometraggi dalle sezioni Orizzonti e Fuori Concorso, fruibili online per gli accreditati. Tra questi, oggi spicca “Secret of a Mountain Serpent” di Nidhi Saxena: 108 minuti, produzione India/Sri Lanka, ambientato durante la guerra del Kargil. È la storia di Barkha, un’insegnante in un paese himalayano svuotato dagli uomini; attende il ritorno del marito dal fronte e l’arrivo di un forestiero incrina il fragile equilibrio dell’attesa. L’idea è chiara: aprire il festival a chi non è al Lido senza snaturare l’esperienza in sala. È un esperimento—riuscito? quasi, diciamo—di accesso diffuso e selezione curata.

Cambio di longitudine. Dal Kerala arriva Hridayapoorvam, la ritrovata coppia Sathyan AnthikadMohanlal. Uscita il 28 agosto, in pieno Onam: calendario simbolico e, soprattutto, concreto, perché intercetta il pubblico festivo. Dopo il giro in sala è atteso il passaggio su OTT, conferma di un circuito che tiene insieme rito popolare e second life domestica. Le prime reazioni social parlano di mix di fun, charm and entertainment, mentre una parte della critica affila il bisturi: bene così, significa che la discussione è viva. E c’è anche un dettaglio industriale: la scelta di una finestra festiva e il successivo approdo in streaming dicono che il cinema regionale sa giocare—senza complessi—sul tavolo globale.

E poi c’è David Strathairn, volto quieto e nervo scoperto, che con A Little Prayer rimette al centro la cosa più fragile e insieme tenace che abbiamo: la memoria. Authoritarianism is a very frightening concept when it comes to the arts… artists must remain vigilant. Non è una posa morale: è un promemoria operativo, oggi. L’opera, piccola e lucidissima, scava nei silenzi di una famiglia del North Carolina; parla di traumi, stigma, lavoro e scelte minute che cambiano una vita—lo registrano anche interviste e recensioni negli Stati Uniti. Il punto non è l’indignazione a comando; è la custodia delle storie che altrimenti scompaiono. (E sì, ogni tanto sembra retorica; poi guardi fuori e capisci che no, purtroppo non lo è).

Tre movimenti, un’unica domanda: a cosa serve oggi raccontare? A fare ordine quando il mondo corre, a creare spazi di resistenza. A Venezia il racconto sfila e, nello stesso gesto, si decentralizza; in India torna alla festa e si prepara al salotto di casa; con Strathairn scende nel sottovoce di una famiglia qualsiasi, dove la politica non è slogan ma corridoio che porta in cucina. Le platform non sono il nemico (o non sempre); sono un ambiente, con regole proprie, che possiamo piegare a un’etica del pubblico. La domanda vera è: chi decide quali storie passano, e con quali condizioni?

Camminando tra i banchi di pesce al Rialto—odore d’acqua, voci che contrattano—penso che il cinema dovrebbe assomigliare a questo: mestiere, saper fare, materia viva. Gli algoritmi contano, ma contano perché trasportano il fresco, non per decidere il menù. I festival, allora, restano luoghi: di passaggio e di memoria. Dove la passerella si fa specchio, e talvolta arma spuntata contro la pigrizia. Dove un film piccolo può aprire un varco e un film grande può—finalmente—abbassare la voce.

Spettacolo e resistenza camminano affiancati. Se non si parlano, uno dei due perde. Oggi a Venezia si alza un sipario ibrido; in Kerala si compie un rito che diventa cinema domestico; nelle parole di Strathairn risuona un allarme gentile. Il racconto, quando funziona, non obbedisce: guarda, nomina, a volte punge. E ci tiene svegli. Proprio così.