Tra fuoco e lecci: Topografia dell’incanto Eoliano

Un viaggio filosofico da Vulcano a Filicudi, dove ogni isola diventa segno e metafora di un arcipelago interiore.

TERRITORIO

by Martin J. Osburton

7/26/20252 min leggere

Il paradosso di Vulcano: aridità che fiorisce.
Scendendo dal traghetto, Vulcano pare un pugno di lava pietrificata che fuma ancora di antiche ire. Zolfo e vaporose bocche termali custodiscono la prima semiotica dell’isola: il segno di un ventre che non tace. Eppure, basta inerpicarsi verso il punto panoramico (ca. 400m) di Capo Grillo per assistere a una brusca retorica della vegetazione: lecci, pini marittimi e macchia mediterranea mutano il lessico cromatico dal nero al verde smeraldo. Qui l’occhio abbraccia l’intero arcipelago—una visione che, ai turisti inchiodati alle spiagge, resterà lettera non letta.

Sinfonia di fuoco e radici.
L’isola è un palinsesto vulcanico: al Gran Cratere, silenziato dal 1888‑90, si accosta Vulcanello, il cono “giovane” emerso appena mille anni fa e poi saldato alla madre‑isola. Qui la natura gioca a dialettica: il silicio incandescente del passato innerva un presente di felci, cisti e ginestre, come se il fuoco avesse firmato un trattato di tregua con la clorofilla. Camminare tra le fumarole è leggere una glossa vivente sul contrasto: la nostra idea di desolazione è spesso un pregiudizio percettivo, destinato a sciogliersi nella prima foglia che osa.

Lipari, nodo di memorie e rotte.
Dal belvedere, la silhouette di Lipari appare vigile oltre il collo di Vulcanello. Le scorie d'ossidiana che resero l'isola un hub neolitico di otto millenni fa raccontano il primo sistema di scambi mediterranei: l'uomo scambiò vetro vulcanico e, con esso, storie, alfabeti, paure. Navigare fra Panarea e Salina permette di misurare, come su una carta nautica interiore, la distanza fra l’istinto di radicarsi e la tentazione di salpare. L’arcipelago, allora, diventa strumento di misura ontologica: ogni isola è un piede di porco che solleva il coperchio delle nostre categorie—solido/liquido, quiete/eruzione, vicino/lontano.

Filicudi: l’estremo canto del silenzio.
Spingersi a sud‑ovest, verso Filicudi, è attraversare una soglia quasi ascetica. Meno di trecento anime, mulattiere di pietra e un cono vulcanico dormiente che spinge la vegetazione a scenografie da romanzo mitico. Qui l’assenza di una civiltà che schiaccia suona come un esperimento di disintossicazione dalla semiosfera urbana: il viaggiatore scopre che la vera ricchezza non è l’oro delle cupole, ma il tempo che si fa materia prima. Filicudi non è l’isola del “nulla da fare”, bensì del “tutto da essere”, un laboratorio dove l’identità si riconfigura nella trama carezzevole del vento.
Chi teme le isole dimentica che l’isolamento non è distanza dalla vita, ma la distanza necessaria perché la vita torni a farsi pensiero.