Tra sangue e compassione: la via spezzata di Enjō Kihachirō
Dalla ferocia dei muzan e alla metafisica del sacrificio nella silografia di Tsukioka Yoshitoshi.
ARTE
by Martin J. Osburton
7/30/20252 min leggere


Il bagliore del rosso eterno. Non c’è preavviso: lo sguardo cade sul guerriero accasciato ai piedi del bodhisattva Jizō, il busto crivellato di frecce, il sangue che scivola a grumi lucidissimi sul legno. La naginata giace inerte, come se avesse esaurito la propria voce. Yoshitoshi non concede riparo: avvicina l’osservatore all’istante di sospensione tra ultimo respiro e promessa di redenzione. Il rosso, steso a mano con pigmento inspessito, demarca un confine che è al tempo stesso ferita fisica e soglia metafisica, invitandoci a misurare la distanza—sottile, quasi ironica—tra compassione buddhista e violenza rituale.
L’eco dei ventotto delitti. La tavola che vedete appartiene alla serie Eimei nijūhasshūku ("Ventotto celebri delitti con versi"), progetto condiviso con Yoshiiku che tra il 1866 e il 1867 inaugurò il filone cruento dei muzan‑e. Il termine—composto dai caratteri 無 (mu, "senza/assenza") 惨 (zan, "crudele/atroce") e 絵 (e, "immagine”) —designava stampe che sfidavano i canoni estetici tradizionali attraverso la rappresentazione esplicita di scene di violenza e morte. Ventotto casi di omicidio: realtà filtrata da kabuki, cronaca e leggenda, consegnata a un Edo inquieto, scosso dalle guerre interne del crepuscolo Tokugawa. Come un kyōka inciso su carta, ogni stampa fungerà da distico morale: ciò che spaventa illumina. Per un pubblico urbanizzato, assuefatto a castighi pubblici e notizie di battaglia, la crudeltà diventa specchio—e placebo—dell’instabilità sociale.
Compassione nel groviglio del dolore. Il corpo di Enjō Kihachirō[1], pur schiacciato dal peso dell’ira vendicativa, trova rifugio nell’aura di Jizō, divinità protettrice dei defunti smarriti. È il paradosso centrale: l’uomo che fallisce nel vendicare il fratello si abbandona alla misericordia universale, rovesciando il codice d’onore samuraico in una richiesta di perdono cosmico. Nel gesto di strisciare verso la statua si condensa l’idea buddhista di mujō: l’impermanenza che scioglie tanto il rancore quanto il peccato. Yoshitoshi suggerisce che persino la lama—testimone di rabbia—possa mutarsi in rosario, se percorriamo sino in fondo il corridoio del dolore.
Tecnica come confessione di colpa. L’effetto viscerale non è solo iconografia; è alchimia materiale. Mescolando collante animale e cinabro, l’artista crea superfici dove il rosso coagula, brilla, quasi odora. Così infrange la tavolozza sobria dell’ukiyo‑e classico per consegnarci un tessuto vivo, pulsante, anticipazione della fotocronaca moderna. Cronache d’epoca ricordano il suo studio di cadaveri decapitati agli esecutori di Kozukappara: pratica estrema per catturare la verità anatomica e, forse, esorcizzare l’ansia di un mondo che crolla. La stampa diventa confessione collettiva: con ogni colpo di sgorbia, Yoshitoshi intaglia la colpa di un’epoca intera.
Dal legno alla carne digitale. Chi scrolla morbosamente i feed odierni non è poi così distante dal mercante che esponeva queste tavole lungo il Sumida. Noi pure cerchiamo il brivido che confermi la fragilità del nostro guscio morale. Eppure, se entriamo nel silenzio della carta, la ferita di Enjō Kihachirō ci chiede altro: non un mero voyeurismo, ma una resa dei conti con il nodo irrisolto fra istinto di vendetta e sete di compassione. In quel lampo rosso troviamo il ricordo che le leggende giapponesi custodiscono da secoli—che il mostro non vive nella foresta, ma nella giuntura in cui la spada sfiora il cuore. «Finché il sangue ci disgusta e ci seduce, saremo tutti spettatori—mai davvero salvati né completamente dannati.»
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[1] Enjō Kihachirō è un personaggio della tradizione teatrale giapponese, probabilmente derivato dal repertorio kabuki o dalle cronache popolari dell'epoca, piuttosto che una figura storica documentata. Come spesso accadeva nella serie di Yoshitoshi, i "delitti celebri" attingevano a un mix di eventi reali, leggende urbane e drammi teatrali che circolavano nell'immaginario collettivo di Edo.
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