When Art Becomes Protest: “Cutting the Tightrope” e i festival che danno voce al conflitto
Il teatro come arma gentile, la danza come cittadinanza provvisoria. Due città, un’unica domanda: dove finisce l’arte e inizia l’attivismo?
ARTE
by Martin J. Osburton
8/19/20253 min leggere


Londra e Edimburgo, stessa aria elettrica. Da una parte la risposta a una stagione di censura strisciante; dall’altra un rito laico che trasforma la folla in corpo collettivo. Non è una moda: è la pressione della storia sul diaframma della scena.
Il contesto: burocrati, linee guida e la parola proibita (“politica”). All’inizio del 2024 l’Arts Council England (ACE) ha aggiornato il proprio Relationship Framework: avvertimento a valutare il “rischio reputazionale” legato a dichiarazioni “overtly political or activist” di persone collegate alle organizzazioni finanziate. Il settore lo ha letto come freno all’espressione, in particolare sul tema Palestina. Dopo le proteste, ACE ha precisato che non rimuoverà o rifiuterà fondi “puramente” perché un’opera è politica e ha riaffermato la libertà d’espressione. La sequenza di correzioni e contro‑correzioni ha rivelato una frizione strutturale: burocrazia culturale vs autonomia dell’arte.
Londra: scrivere in un mese, controvento. Alla Arcola di Hackney, “Cutting the Tightrope” mette in fila 11 monologhi firmati da 12 autrici/autori, diretti da Cressida Brown e Kirsty Housley. Il progetto nasce di scatto: testi scritti in un mese dopo l’allerta ACE. Tra i pezzi che restano, “Dare Not Speak”, satira dell’ipocrisia tokenista attraverso la voce di una scrittrice palestinese, e “The Florist of Rafah”, ritratto di un venditore di rose a Gaza.
Il montaggio alterna ai monologhi diapositive con dati sul conflitto: un contrappunto che, in alcuni momenti, incide più delle parole. Il Financial Times parla di produzione “politically charged” e “defiant” verso i timori di censura, segnalando al contempo l’irregolarità qualitativa (voto 3/5). Dopo il debutto londinese 2024, lo spettacolo approda anche all’Edinburgh International Festival nel 2025.
Edimburgo: dalla festa all’attrito. Nell’Old College Quad, l’Edinburgh International Festival accoglie “Dance People” del coreografo libanese Omar Rajeh (con la drammaturgia di Peggy Olislaegers): una promenade con musica dal vivo, proiezioni, voci e testimonianze. La folla riceve istruzioni, si stringe in cerchi, alza le braccia: la missione dichiarata è “trasformarci da spettatori passivi a spettatori attivi”. Ma, nota il Guardian, l’effetto collettivo scivola nel finale verso un tono più alienante, e la costellazione di idee risulta overloaded, pur tra momenti di gioia comunitaria. Lo spettacolo è andato in scena fino al 10 agosto; l’EIF prosegue fino al 24 agosto. Altre recensioni parlano di energia effervescente e di una curatela che “organizza lo spazio e le persone”.
Il nodo: arte performativa e cittadinanza. Che cosa chiediamo oggi all’arte dal vivo? Di “dire la verità”? Di “organizzare la speranza”? Le due opere rispondono in modi opposti e complementari. A Londra prevale la parola: elenco di fatti, retorica del dato, colpo di monologo. È vero, il disegno è disomogeneo, ma l’urgenza batte la finitura e ricorda che il teatro, anche quando “disordinato”, resta un atto di salute pubblica. A Edimburgo domina il corpo: la politica passa per la coreografia del noi, che esalta e confonde insieme. Qui la domanda è spietata: quando il festival abbatte la ribalta, il pubblico diventa cittadino o figurante? Non è sofisma: lo si vede nelle riserve della critica—“overloaded” e “wandering”—e nelle tre stelle (3/5) assegnate.
Il rischio e la promessa. La burocrazia chiede “rischio zero”; l’arte, per definizione, promette inciampo. Sullo sfondo si discute persino dell’architettura che regge il sistema: il presidente di ACE, Nicholas Serota, ha ricordato che colpire gli organismi di finanziamento “a braccio lungo” mette a rischio la libertà di pensiero e apre la porta a interferenze politiche. Il quadro è chiaro: se l’istituzione difende l’arm’s‑length principle, artisti e festival—con tutti i loro limiti—difendono dissenso, partecipazione, comunità. “Cutting the Tightrope” espone le cuciture ma difende il diritto a nominare il conflitto; “Dance People” tenta la cittadinanza danzata, sapendo che il confine tra festa e alienazione è sottile. È proprio in quella soglia, instabile e imperfetta, che l’arte torna a essere luogo pubblico.
Se la penna incide il foglio e la danza occupa lo spazio, allora il pubblico torna corpo – persino responsabilità. Dalla Arcola al Quad: quando l’oppressione stringe la gola, l’arte risponde battendo chiodi di comunità e di movimento. Non è consolazione. È un invito: alzarsi, e stare.
Riflessioni
Uno spazio per pensare oltre la superficie.
Creatività
martin@osburton.com
+?? ??? ??????? - vuoi sapere il mio numero di telefono ? Clicca qui.
© 2025. Tutti i diritti sono riservati.